Presentato all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Behind the Mountains (trailer), del regista tunisino Mohamed Ben Attia, approda alla ventinovesima edizione del Medfilm Festival, manifestazione che aveva già ospitato il regista nelle sue edizioni precedenti. Il film in concorso si differenzia dagli altri sia per la qualità estetica delle inquadrature, risaltata dall’uso di poetiche ambientazioni naturali, che per il carattere sovversivo della pellicola che emerge attraverso una dimensione puramente fantastica.
Behind the Mountains riesce a sorprendere sin dai primissimi minuti in cui vediamo il protagonista, Rafik (Majd Mastoura), entrare indisturbato con una spranga di ferro nell’affollato ufficio dove lavora, distruggere la sua postazione ed, infine, buttarsi dalla finestra. Una serie di azioni che, al contrario di come si possa pensare, non vengono chiarite ma, al contrario, complicate e potenziate dalla scena successiva. La seconda sequenza, infatti, ricalca in parte la prima: Rafik, in prigione, si rifiuta di rispondere alle domande delle guardie e ancora una volta, con estrema freddezza, si lancia dalla finestra. L’immediata interpretazione di questo comportamento che appare simile ad un automatismo, è un evidente malattia mentale.
Convinzione che non può che venire rafforzata quando, presentandosi a casa della moglie, l’uomo afferma di poter volare. La donna rifiuta ogni forma di dialogo e ordina a Rafik di allontanarsi da lei e dal loro bambino, intimazione che avrà come unico risultato quello di spingere l’uomo verso la prima di molte altre azioni folli. Il protagonista, infatti, si presenterà nella scuola del figlio finendo per rapirlo. Nonostante il bambino cerchi più volte di scappare, il protagonista non gli fornisce alcuna spiegazione né lo rimprovera ma rimane fermo e concentrato per arrivare alla meta del viaggio: un’altura in mezzo alle montagne. Lì il bambino, Yassine (Walid Bouchhioua), viene lasciato indietro dal padre, che continua ad arrampicarsi uscendo dall’inquadratura. A sostituire il protagonista c’è un ignaro pastore (Samer Bisharat) che si dimostrerà il secondo inconsapevole testimone oculare di ciò che possiamo solo immaginare che sia accaduto; ovvero il salto e la successiva caduta del protagonista, che vediamo solo una volta a terra.
Il corpo di Rafik viene trasportato dal pastore nella sua casa dove lo strano trio rimane per qualche giorno, al suo risveglio il protagonista parla concitatamente con il figlio riguardo la sua “dimostrazione di volo” che non viene né confermata né smentita da Yassine che appare solo decisamente confuso e desideroso di tornare a casa. Il viaggio riprende verso una nuova meta: Rafik vuole arrivare al limitare della dorsale tunisina dove, dietro la montagna, lui e il figlio si ricongiungeranno -secondo lui- con la rispettiva moglie e madre. A partire c’è anche il pastore che abbandona la sua casa e i suoi animali per seguirli in quella che diventerà un’avventura angosciosa ed imprevedibile ai limiti del thriller.
Dopo essere stati fermati ad una postazione di blocco della polizia, Rafik si lancia in una fuga disperata che termina con l’ingolfarsi della macchina. Per passare la notte decide dunque di chiedere ospitalità agli abitanti di una casetta al limitare del bosco dove vive una famiglia composta da una coppia con i loro tre figli. La donna, ragionevolmente, non si fida e rifiuta la loro richiesta e come sempre davanti a un ostacolo, Rafik agisce in modo inaspettato e vagamente brutale aprendo la porta con la forza. Con l’arrivo del marito la situazione precipita: il protagonista e il pastore prendono possesso della casa rendendo i proprietari degli ostaggi.
Nonostante la sua stranezza Rafik non appare pericoloso, seppure mantenga un tono minaccioso per piegare i due genitori al suo volere. Yassine, invece, viene spinto a dormire e fare amicizia con il figlio maggiore della coppia, suo coetaneo. Si respira un’opprimente aria di tensione, che viene intensificata quando, durante la cena, la capacità del protagonista diventa argomento di discussione che culminerà con un aspro rimprovero della coppia al loro stesso figlio che, scettico ma incuriosito, continuava a domandare se Rafik fosse davvero in grado di volare, storia ampiamente confermata sia da Yassine che dal pastore.
Quella del volo non è altro che una funzionale metafora che diventa man mano sempre più potente quando a questa “anormalità” del protagonista, che non nega la possibilità che molti altri possano sviluppare la sua stessa abilità, si affianca il viscerale bisogno della famiglia di salvaguardare la loro ordinarietà. Il personaggio più importante ai fini della narrazione diventa dunque la madre (Selma Zghidi) che continua incessantemente a spingere il marito ad agire contro i loro aguzzini e che cercherà di scappare, venendo però raggiunta dal protagonista. Dopo questo evento, di cui ancora una volta non abbiamo una visione completa, la ferocia della donna nel combattere questi invasori fisici, ma soprattutto cerebrali, che non fanno che infondere dubbi su cosa è realmente possibile, aumenta esponenzialmente.
La donna riesce con l’inganno a sedare Rafik e il pastore e, nelle scene successive, moglie e marito passano da essere vittime a carnefici eccedendo in un concentrato di violenza che culmina con una coltellata alla pancia del protagonista. L’uomo, agonizzante, usa le ultime forze per scappare con il figlio in un’ultima scena in cui -finalmente- ogni perplessità riguardo alla sua reale capacità di volare viene messa a tacere. L’ultima scena, però ,non è dedicata all’inevitabile morte del protagonista ma mostra la madre che, nel riportare gli eventi accaduti per il verbale della polizia, si rifiuta di conformarsi alla versione del marito. Una versione che li dipinge come vittime assolute, e che smentisce, lasciando germogliare in sé quel seme di cambiamento- irrazionale ma decisamente radicale-, la convinzione che Rafik ha instillato in tutti i personaggi e afferma, dunque, di averlo visto volare.