Todd Haynes fa il suo ritorno al cinema con May December (trailer), dramma psicologico tratto da una vicenda realmente accaduta nello stato di Washington. I veri protagonisti di questa storia, Mary Kay Letourneau e Vili Fualaau, rispettivamente un’insegnante 36enne e uno studente appena dodicenne della stessa scuola, hanno una relazione per cui la donna subirà due arresti con l’accusa di abuso su minore e dalla quale nasceranno due figlie, entrambe in carcere. Haynes e la sceneggiatrice Samy Burch rimangono molto fedeli al fatto di cronaca e al tempo stesso danno voce ai suoi protagonisti, portando avanti un discorso sul rapporto tra realtà e finzione e uno ancora più grande sull’identificazione.
Tutto ciò passa principalmente dalla creazione del personaggio di Elizabeth (Natalie Portman), una giovane ed affascinante attrice di grande fama che mostra un grandissimo interesse per la storia di Gracie e Joe, i due personaggi che nel film incarnano la coppia del caso di cronaca, interpretati da Julianne Moore e Charles Melton. L’intento di Elizabeth è quello di realizzare un film su questa bizzarra “storia d’amore” e per farlo sente l’urgenza di documentare la vita della coppia attraverso frequenti interviste e trascorrere molto tempo a contatto diretto con Gracie, che lei stessa interpreterà nel film che sta scrivendo. L’inevitabile conseguenza di un tale investimento da parte dell’attrice, che arriverà a sviluppare un attaccamento morboso nei confronti di Gracie, è la sua completa identificazione con la donna di cui vuole narrare la storia.
Questa identificazione, tuttavia, risulta fallimentare, ed è la stessa Gracie, che si è sempre mostrata disponibile e affabile con l’attrice, a svelarle il trucco e quindi la sua vera natura, che per tutto il tempo trascorso insieme era stata fraintesa da Elizabeth. In questo il film ricorda molto le immagini femminili di Persona di Ingmar Bergman, da cui trae buona parte della dinamica tra i due personaggi e l’impostazione di non poche inquadrature (si pensi alla scena in cui Gracie ed Elizabeth si truccano davanti allo specchio, simile a quella delle immagini riflesse di Alma ed Elisabeth in Persona). In entrambi i film una delle due donne esce distrutta da un processo di identificazione che per qualche motivo non può che portare a una frattura: se infatti Elizabeth si fosse limitata a studiare i movimenti e la dizione della donna nessuna delle due si sarebbe fatta male, ma l’attrice indaga più del dovuto sulle dinamiche profonde che muovono il suo animo, non riconoscendo i limiti della sua ricerca, che verrà quindi interrotta bruscamente da Gracie.
Un ruolo più che interessante è quello di Joe, giovanissimo marito di Gracie e padre di due figli già grandi. Elizabeth tenta di corrompere anche lui nel tentativo di spezzare il filo che lo tiene legato alla moglie, ma anche in questo caso senza successo. A questo personaggio così drammaticamente enigmatico viene dedicato ampio spazio all’interno della narrazione e, nonostante per la maggior parte delle scene che lo vedono protagonista sia immerso in un silenzio altrettanto enigmatico, si percepisce chiaramente l’estrema complessità della sua condizione e l’angoscia di aver vissuto così poco ma allo stesso tempo così tanto. Joe è infatti un uomo che è saltato dall’infanzia all’età adulta senza passare per l’adolescenza, fase che in qualche modo ritroverà nel rapporto con Elizabeth e vivrà attraverso i figli.
Non è un caso se a fronte di una completa assenza di nominations nelle categorie più importanti il film risulta comunque nella cinquina dei candidati all’Oscar per miglior sceneggiatura originale: la narrazione riesce ad alternare molto abilmente scene dialogiche e dinamiche con sequenze più intime e lente, creando anche un certo ritmo narrativo per niente sgradevole. Questa tensione tra detto e non detto ricorda molto l’atmosfera di suspense tipica dei film di Hitchcock, che hanno sempre luogo in un tempo sospeso e apparentemente fuori dal mondo, come in un sogno. Ed effettivamente questa stessa vicenda sembra essersi svolta fuori dal mondo e dalle sue leggi non scritte: che sia l’interpretazione di Julianne Moore e Charles Melton o una delle tante interviste a Mary Kay Letourneau e Vili Fualaau, si ha la netta sensazione che i due personaggi vivano in un mondo a parte, regolato da un’unica importante legge, quella dell’amore. Il film però non ci fa sognare con loro o almeno lo fa per poi svegliarci sul finale con una brusca ma impeccabile chiusura.
La nuova opera di Haynes, ancora memore del successo di Carol, ci mostra quale potere derivi dall’imitazione, che sia legata alla recitazione o alle dinamiche che mettiamo in atto quotidianamente nei nostri rapporti, e ci mette in guardia sui rischi dell’interpretazione come identificazione totale con il personaggio. Questo discorso è inquadrato all’interno della rielaborazione di una storia che non viene né sminuita né distorta (accuse che sono state fatte al film dai diretti interessati) ma portata con rispetto e anche una certa dose di imparzialità davanti agli occhi curiosi degli spettatori, realizzando così un film coinvolgente e ricco di elementi di discussione sulla natura stessa del cinema.
Dal 21 marzo al cinema.