Il successo di Duel, thriller che Spielberg realizzò per la televisione, convinse i produttori della Universal che per il regista era giunto il momento di passare al cinema – col senno di poi, è facile ringraziare. Spielberg, tempo prima, aveva sottoposto all’attenzione della Universal un soggetto tratto da un evento di cronaca texana. Nel 1969 il giovane Robert Samuel Dent, incarcerato per reati minori riesce ad evadere di prigione con l’aiuto della moglie, Ila Faye Dent. I due, durante la fuga, prendono in ostaggio il poliziotto James Kenneth Crone. Diretti nella città di Sugarland per riprendersi il bambino che gli assistenti sociali avevano sottratto alla coppia – non riesce difficile immaginare il perché – e dato in adozione ad un’altra famiglia, l’inseguimento dei fuggitivi, in diretta radio e televisione, diventa il maggior momento d’intrattenimento per milioni di americani.
Hal Barwood e Matthew Robbins fecero diventare l’evento di cronaca una sceneggiatura. Carte Blanche? American Express? Il titolo scelto per la prima opera cinematografica di Steven Spielberg fu Sugarland Express. La produzione del film fu affidata a Richard Zanuck e David Brown, i quali volevano far debuttare l’opera, il giorno del Ringraziamento, in un solo cinema di New York e in uno solo a Los Angeles, per poi diffonderlo gradualmente in tutti gli Stati Uniti. Le cose cambiarono.
Il film esce nelle sale cinematografiche americano il giorno del Ringraziamento, il 30 marzo del 1974. Un mese dopo l’uscita in America, il 29 maggio il film esce nelle sale svedesi. Possiamo evitare di allacciare le cinture. Si parte. Corvette, auto della polizia; elicotteri. In tutto 240 macchine, 50 delle quali vennero distrutte. Una produzione di 1.8 milioni di dollari che aveva previsto tre mesi di preparazione, iniziata il 15 gennaio del 1973, e sessanta giorni di riprese tra Richmond, Clodine e Sugar Land, con campo base a San Antonio. Altri 5000 dollari vennero investiti per gli spostamenti della troupe da una città all’altra.
Come ogni prima esperienza non mancarono gli imprevisti. Tra questi, a detta di Brode, la polizia texana si dimostrò restia nel prestare le proprie auto per le riprese, soprattutto da quando, poco tempo prima, Peckinpah e la sua troupe avevano girato Gateway ed erano scomparse della radio dalle macchine. Come se non bastasse, in quel periodo la febbre europea colpì Goldie Hawn e il regista stesso, facendo posticipare l’inizio delle due settimane di riprese in notturna. Schiacciamo a tavoletta.
Dopo l’evasione – non proprio da un carcere di massima sicurezza – il film si presenta come un road-movie ma, come fa notare Ghezzi, la macchina non viene mostrata come semplice mezzo per spostarsi, ma diventa un luogo intimo e di protezione durante la fuga. Allo stesso tempo, le inquadrature sulle grandi strade texane servono a porre l’accento sull’inseguimento da parte della polizia che viene riconsegnato con dei toni da parata. La dimensione intimistica si collega a un tema preciso, che lo stesso Spielberg affermò di aver voluto trattare: la maternità.
Tra gruppetti che scorrazzano in mezzo alla strada e pianti fatti sentire fuori campo, la centralità dei bambini viene presentata sin da subito. Le lacrime di Lou Jean (Goldie Hawn) lasciano intendere il dolore di una madre convinta che il figlio le sia stato portato via ingiustamente. Dolore al quale parteciperà la collettività di persone che sosterrà l’intento di Lou Jean e Clovis (William Atherton) nel riprendersi il bambino. Al pianto della donna si collega quello di Baby Langston; ogni volta che viene preso in braccio dalla madre adottiva sembra voler esprimere la volontà di essere lasciato libero. Di contro c’è l’indifferenza con la quale il bimbo si guarda intorno se tenuto tra le braccia del padre adottivo.
Rispetto a Lou Jean, Clovis sembra rendersi conto della pericolosità delle loro azioni, ma la sua volontà di padre passa in secondo piano rispetto a quella della madre – poveri papà! Il padre adottivo, invece, conscio di non poter intervenire egli stesso nel fermare la coppia, chiede al cecchino di sparare al padre biologico usando il suo fucile personale – chi non ne ha uno? – auto-proclamando la sua autorità paterna sul bimbo.
Il finale del film è presagito a Clovis dal cartone di Vil Coyote, in una scena che, sia narrativamente che visivamente, stempera la drammaticità del tema portato alla luce, attraverso quella dimensione surreale che accompagna tutto il film e che la fotografia di Zsigmond, definita «acquatica», si sposa con l’atteggiamento che la coppia di giovani fuggitivi adotta durante il viaggio: i due gestiscono i contrattempi improvvisando una criminalità che non appartiene alla loro indole. «Me l’ha tolta ma non l’avrebbe mai usata» risponde il poliziotto Slide – Michael Sacks – nel momento in cui il capitano gli riconsegna la pistola che Lou Jean gli aveva tolto dalla fondina al momento del rapimento.
L’orsacchiotto gettato fuori dal finestrino dell’auto in corsa simboleggia la perdita di quella speranza che aveva guidato i sentimenti materni; le auto della polizia che travolgono l’orsacchiotto sono l’ultimo segnale di un’autorità che condanna, il cui unico scopo è ristabilire l’ordine senza dare modo di esporre spiegazioni. La fuga giunge al termine e a noi resta un po’ d’amaro in bocca.
Bibliografia
Brode D., The films of Steven Spielberg, Carol group, New York, 1943, The Sugarland Express, pp. 36-46
Morris N., The cinema of Steven Spielberg. Empire of light, Wallflower Press, 2007, The Sugarland Express: a light comedy?, pp. 32-42
Dell’Acqua G. P., Una ballata di persecuzione e morte. «Sugarland Express» di Steven Spielberg in Cinema 60: mensile di cultura cinematografica, nov-dic 1974, pp. 63-64
PRESSBOOK, 1974
Pintus P., Sugarland Express e California Poker in Rivista del Cinematografo, num. 2, febbraio 1975, pp. 104-106
Ghezzi E., Sugarland Express di Steven Spielberg in Il falcone maltese: rivista di cinema, num. 6, giugno 1975, pp. 54-55