Un voice over. «Cosa amo di Nicole». Ed eccola, Nicole, che teatralmente emerge dal nero, per poi lasciare lo spazio a un montaggio ritmato, che vede sempre lei protagonista dell’occhio, ma non dell’occhio di una mdp fredda, ma di un occhio innamorato. Cambio prospettiva. Nuovamente un voice over. «Ciò che amo di Charlie». Stavolta, però, Charlie non emerge spettralmente da nessuno sfondo nero. Si comincia con un montaggio. Un montaggio che, tra echi di vecchie risate e momenti di tristezza, cerca di trasmettere un calore, che non appartiene propriamente a Charlie, ma a Nicole e al suo modo di vedere e vivere Charlie, che si alza nel buio di una sala teatrale e deciso si avvicina a Nicole, sussurrandole qualcosa nel silenzio. In un silenzio che noi spettatori non possiamo sentire, ma che percepiamo nel profondo come momento di rottura.
La poesia che abbiamo sentito nelle parole, che abbiamo visto nel montaggio e nelle inquadrature di un amore, che appariva puro e semplice, sembra incrinarsi. Incrinarsi nella distanza tra i due, nella postura dei loro corpi e nelle parole di un terapeuta: «È importante ricordare cosa avete amato l’uno dell’altro». Parole che fanno da leitmotiv all’intero film, al cui interno, però, si perdono e che si ritrovano in un pianto solitario e invisibile. Pianto che si riduce a un abbraccio di un dolore umanamente primordiale, che ricorda un fiore appassito, a cui, forse, servirebbe solo un po’ d’acqua. Un po’ d’acqua che permetta di ritrovare l’umanità nelle persone che erano il centro della propria esistenza. Che erano il fulcro di risate e dolcezza. Un cancello si chiude tra Charlie e Nicole, in un senso d’alienazione, che darà l’avvio a una partita a scacchi, che, forse, alla fine non vede nessun vincitore, ma solo un cuore malconcio, pronto, nel calore di un gesto semplice, a sorridere ancora.
Noah Baumbach, con un’estrema eleganza nelle parole e nello stile di regia, cerca di dipingere una storia d’amore, la storia di un matrimonio, partendo, però, dal suo punto più basso: il divorzio. Decidendo di non puntare su un’eccessiva drammaticità, che solitamente questo tipo di tematica richiama a gran voce, e investendo, invece, in scene quasi grottesche, che modificano il tono da drammatico a comico, Baumbach, in veste anche di sceneggiatore, non solo dona al film una vasta gamma di sfumature cromatiche delle emozioni presenti in una relazione, ma permette anche allo spettatore di sentire realmente l’esperienza devastante della fine di un sogno. All’interno di ciò, la regia entra, con un’estrema naturalezza, dentro la sostanza essenziale di gesti, parole, urla, grida e pianti, che lasciano il pubblico immobilizzato e rapito. Una semplicità e spontaneità che probabilmente nascono dal retrogusto quasi autobiografico della vicenda e che si è avuto modo di vedere al cinema già con Lost in Translation e Her. Tuttavia, se il primo è una dichiarazione di come Sofia Coppola si sia sentita persa sul varco della soglia pre-divorzio e il secondo è, invece, una lettera di scuse da parte di Spike Jonze alla stessa Coppola, qui il messaggio che vuole lasciare il regista newyorkese è totalmente diverso e anche più universale.
Con Marriage Story (qui il trailer) Baumbach non parla solo del suo divorzio con Jennifer Jason Leigh, né tenta di scusarsi con l’attrice o di mostrarle come la fine della loro relazione l’abbia fatto sentire. Marriage Story, grazie anche all’impeccabile e incredibile interpretazione di Adam Driver, che sboccia nella scena centrale e in quella che apre al finale, vuole mostrare l’amore che, nonostante tutto il dolore, resta alla fine di un rapporto. Un amore che non è solo temporaneo, contrariamente a quanto afferma il personaggio interpretato da Laura Dern. Un amore la cui dolcezza perdura nelle labbra tremolanti di Charlie e nella semplicità in cui Nicole, con piccoli gesti, continua a prendersi cura di lui, nonostante la fine della loro “Marriage Story”.