Piangere è un atto molto più coraggioso dell’agire con violenza. Le emozioni non hanno genere perchè sono un umano mezzo d’espressione. Mare fuori è la nota serie diretta da Ivan Silvestrini, prodotta da Rai Fiction e distribuita a partire dal 2020. I ragazzi entrano nell’IPM di Napoli, per motivi di cui sono chi più, chi meno, imputabili. Tra le mura fanno capolino piccole finestre, dalle quali si intravede il mare. Si apre l’esplorazione dell’interiorità, attraverso un processo di crescita, che si infittisce di stagione in stagione. In questa introspezione, il passato di ogni personaggio emerge dai flashback, che contestualizzano ogni ruolo all’interno del sistema-carcere, talvolta giustificando i reati commessi dai ragazzi.
Droga, violenza domestica e dinamiche familiari prendono un drammatico sopravvento, soprattutto nella prima stagione, senza lasciare spazio all’impatto emotivo dei protagonisti, che sembrano accumulare dolore e rabbia. Il passato si personifica in una realtà tragica, dalle sembianze feroci, che non lascia scampo all’innocenza dei ragazzi neppure maggiorenni, che trattengono nel proprio sistema comportamentale atteggiamenti appresi da genitori, amici, camorristi. Si tratta di una generazione cresciuta troppo in fretta e male, che dissemina odio per l’altro e nel sé intimo. Non si contesta, non si piange e non ci si scontra con i potenti. In mare fuori, però, i confini tra forza e debolezza si fluidificano.
L’adolescenza può essere pericolosa. Alto o basso che sia il contesto, la buona fede della tenera età può ritorcersi contro l’innocente stesso. Mare fuori si fa strada in un ambiente già complicato, al quale si aggiungono i danni della dolce età che non permette errori. Se la prima stagione sembra incentrata sul tema carcere, più avanti la storia matura. I personaggi crescono, spesso cambiano totalmente la loro personalità, soffrono. Il modello di mascolinità proposto è smontata dal principio. Violenza, dinamiche di gregge, senso di superiorità, donne da difendere ma che non si rispettano sono temi lanciati e poi corretti, quasi a voler insegnare che scardinare è necessario anche in luoghi in cui proprio sembra impossibile. Il personaggio di Carmine Di Salvo (Massimiliano Caiazzo) non si è mai opposto a questo sistema violento, ma non lo ha neanche inglobato. Carmine cresce e che non agisce mai con cattivi intenti. Nell’ultima stagione si fortifica, rompe lo schema classico della mascolinità criminale. Si fa pionere di una via di fuga dalla gabbia in cui tutti sono costretti ad adattarsi. Dimostra che, anche quando la società in cui si cresce impone regole che sembrano incontestabili, in realtà si è liberi di innamorarsi e di agire interrompendo un meccanismo malato, che sia la criminalità, che sia un pregiudizio.
Carmine, come Totò (Antonio Orefice), Cardio (Domenico Cuomo), Pino (Artem Tkachuk), si ribella piangendo, emozionandosi. Le scene di film e serie e i passaggi di libri con protagonisti uomini che piangono, suscitano una tacita confusione nei moderni lettori occidentali, abituati a modelli di virilità opposti. Sembrano incomprensibili le motivazioni per le quali certi atteggiamenti siano stati attribuiti a uomini, che per convenzione sono simbolo di forza assoluta e coraggio. In realtà, ci sono diversi aspetti, a partire dalla letteratura classica, che non si studiano, perché ritenuti poco importanti dal superficiale e massimalista sistema scolastico. Infinite sono le rappresentazioni che la letteratura, le arti figurative e il teatro hanno regalato alle lacrime.
Il pianto è ed è sempre stato un efficientissimo mezzo di comunicazione, drammatico e dal forte impatto empatico. Piangere equivale ad esprimersi, ed esprimersi comporta l’aspettativa di una risposta, e quindi un bisogno. Anche gli uomini hanno bisogno di una forza esterna e la richiedono, in ogni era storica. Esempi di eroi che trovano il coraggio di piangere in pubblico sono Priamo e Achille, nel cui pianto condiviso risiedeva una spinta vitale per superare ogni ostilità. Era lì, sotto gli occhi di tutti, il segreto dell’eroismo: vivere la propria umanità senza inibizioni, lasciandosi ricaricare dalla liberazione catartica delle emozioni espresse.
Il pianto in Mare fuori assume lo stesso significato catartico. Ogni personaggio maschile trattiene emozioni che pensa di non poter esternare. Il carico di responsabilità anche solo per una sola lacrima, è pesante, insostenibile. I colpi della vita devono essere incassati, senza trapelare una sola emozione, e nascondendo tutta l’energia del pianto dietro una mimica rigida, arrabbiata, dietro una maschera da “duro”. Al contrario di altre serie e fiction che toccano i temi della criminalità, Mare fuori accompagna i suoi protagonisti verso l’abbandono delle maschere. Chi viola la legge è osservato da un punto di vista che non ammette pregiudizi. Gli archetipi a cui si fa riferimento sono nobili, classici, letterari. Si approfondisce l’aspetto dell’interiorità e non quello delle intenzioni.
I personaggi fanno parte prima del mondo della propria età e delle sofferenze ad essa legate. Paradossalmente, la criminalità ha poco a che fare con Mare fuori. È un espediente utile alla narrazione, necessario a giustificarne il contesto. La vita dei ragazzi è libera come il mare, metafora di speranza, emozioni, lacrime. Ciò non toglie che chi sbaglia debba fare i conti con le proprie colpe. Il percorso che porta i protagonisti a commettere reati è sempre un percorso indotto dal contesto o dalle famiglie. Le non-intenzioni dei ragazzi vengono percepite come tali solo a compimento dell’evoluzione dei personaggi stessi, e nel momento in cui accade, avviene un forte rilascio di emozioni, e spesso il pianto.
Mare fuori non discrimina per genere. Il pianto è uno sfogo necessario, uno sfogo neutro. L’imposizione dell’inibizione è una forzatura dannosa e screditante, imposta dagli adulti sui ragazzi giovani e maschi. La comune idea del pianto che è da femmine condiziona in maniera silente le azioni dei personaggi, che si autocondannano in maniera masochistica a sopprime le lacrime, che non trovando spazio, si trasformano in incomprensione, e sfociano nella violenza. Nella terza stagione questo ragionamento è spezzato. Le sequenze in cui i ragazzi si liberano dal peso del giudizio piangendo a dirotto per sensi di colpa, tristezza, ansia, tensione, sono spesso inaspettate. A soppiantare pugni, calci, violenza, arriva il momento catartico, commovente, che rilascia l’empatia e la tenerezza dello spettatore, per il personaggio che in realtà questa comprensione la merita. La sceneggiatura ha il coraggio di esistere in un panorama spettatoriale in cui ancora nessuno ammette la necessità di personaggi di sesso maschile sensibili, senza temere attacchi di bullismo, derisioni, ed altre risposte inadeguate. Mare fuori sfrutta la propria visibilità per lanciare un messaggio necessario: bisogna sfiorare con cautela le altrui emozioni, senza dare per scontata una forza irremovibile, che in nessuno esiste.