Mank: tra lo Studio System e la struttura filmica, una semplice lettera d’amore

Mank

1940. Una piccola nota introduttiva: “alla tenera età di ventiquattro anni, Orson Welles fu attirato a Hollywood da una RKO in difficoltà con un contratto adeguato al suo formidabile talento di narratore”. I titoli di testa. Netflix diventa la “Netflix International Pictures”.  Lo stile è quello magniloquente dei film dell’epoca d’oro degli studios. Bianco e nero, nuvole sullo sfondo, il nome di Gary Oldman (Dracula di Bram Stoker; The Laundromat) troneggia seguendo le norme classiche dello star system. Sotto appare il titolo: Mank (trailer), ovvero il soprannome di Herman Mankiewicz, premio Oscar per Citizen Kane. Dall’introduzione fino al titolo tutto porterebbe a pensare a un film sulla nascita di Citizen Kane. Il nuovo lungometraggio Netflix, ma soprattutto, la nuova opera di David Fincher (Mindhunter), però, di tutto parla eccetto che di Citizen Kane, di Orson Welles o di Herman Mankiewicz.

The Hollywood Studio System

1930-1940. Questo è l’arco temporale, tra il presente e i vari flashback (che ricoprono il fulcro, forse, dell’intero film), che Mank va a ricoprire. Il set: Hollywood, o meglio, gli studios. In questi anni, si ha la transizione dal Central Producer System al Producer Unit System (in una delle sequenze fondamentali del primo atto, nel raccontare il concept di un film, Mank, infatti, conclude sentenziando a un problema con il termine “sequel”, tipico proprio del lavoro a “pacchetti” del Producer Unit System). In entrambi i casi, si ha un sistema che riesce a incastrare “perfettamente” (o almeno così sembra all’esterno) le varie fasi di realizzazione di un film, oliando il tutto affinché la macchina produttiva sia efficiente e compatta. Tutto è organizzato in un processo elastico, ma fortemente standardizzato e soprattutto piramidale.

Una delle case più forti in questi anni, modello anche per le altre case produttive, è la MGM grazie non tanto alla figura di Louis B. Mayer, ma di Irving Thalberg, produttore centrale che sì rispondeva a Mayer, ma che in realtà era il vero nucleo nevralgico di tutte le fasi di quest’assetto industriale. Assetto industriale perché l’aspetto più puramente creativo, quello del regista o degli sceneggiatori, non era ancora ritenuto “fondamentale”. Basti pensare ai quattro diversi registi che si sono susseguiti ne Il mago di Oz o riflettere sulle numerose testimonianze di uno dei più vivi dei ventisette reparti artistici, ovvero quello di sceneggiatura, reparto pimpante, fresco, provocatorio, ma anche con un’aurea spettrale. Come in un’eterna sbronza, gli sceneggiatori del cinema classico vivono con un ritmo sprezzante all’interno degli studios, ma, appunto come in un’eterna sbronza, la linea di demarcazione tra l’euforia e la depressione ha solo pochi gradi di differenza.

Mank

La sequenza di Mank, che si sofferma all’interno di questo reparto (che sia della Paramount ha poca importanza), lo dimostra perfettamente anche proprio in una sua interna e dettagliata struttura in tre atti. Si hanno, infatti, un primo atto d’introduzione tra l’inizio in bagno con il “Mank sbagliato” (Herman Mankiewicz è stato, infatti, il fratello maggiore di Joseph Mankiewicz, regista e sceneggiatore di film come All About Eve, per il quale vinse ben due Oscar), la macchina da presa che, nonostante alcuni stacchi, sembra non fermarsi mai come una pallina da ping pong, la musica briosa e il cartello “GENIUS AT PLAY – KEEP OUT!”;  un secondo atto con una prima parte d’assestamento (la moneta di Buster Keaton che volteggia) che giunge pian piano al midpoint (la telefonata dopo la carrellata di nomi che finisce con “Ben Hecht”, sceneggiatore di film come Scarface, His Girl Friday e Notorious) e alla seconda parte, che ridà ritmo all’interno della riunione con David O. Selznick (produttore tra la Paramount, la RKO e la MGM, ha prodotto film del calibro di Via col vento e Rebecca, per i quali vinse l’Oscar) semplicemente con la forza del dialogo e di una scrittura visiva, che non può non ricordare, in alcuni aspetti, Gli ultimi fuochi di Kazan e Pinter; e, infine, un terzo atto, fuori dagli uffici veri e propri, che, con un brusco “L cut”, si fa avanti con un urlo. Siamo quasi alla prima mezz’ora del film, all’altezza del primo plot point, ed è qui che, velatamente, emerge quell’aurea spettrale.

Al mood spumeggiante della recitazione e del tono musicale, si aggiungono uno di tensione e uno più rilassante. La mordace ilarità del protagonista si quieta al fine di non distrarre troppo lo spettatore dalle varie informazioni sul ruolo dello sceneggiatore all’interno delle grandi produzioni hollywoodiane degli anni ’30. In ben due dialoghi, uno con Mayer e Thalberg e l’altro con William Hearst (magnate dell’editoria, ma non solo, su cui è ritagliata la figura del protagonista di Citizen Kane), la figura dello sceneggiatore che emerge non è quella effervescente che si aveva tra una scommessa dalle forti cifre, una donna mezza nuda e una partita di creatività con i produttori. Mank è solamente un ex critico e drammaturgo teatrale ridotto a “umile sceneggiatore”, uno sceneggiatore tra tanti, una figura intercambiabile. «Just a writer» dirà Thalberg in risposta alla domanda di Mayer su chi fosse Mank (d’altronde, come lascia sottendere anche la frecciatina sul lavorare “insieme, non a turno”, il produttore centrale della MGM era solito far lavorare più sceneggiatori in contemporanea, ma non in team, per poi unire i loro lavori solo in seguito).

Così il sorriso provocatorio di Mank a fine della sequenza non lo fa più apparire come un geniale vincente. La musica d’inizio scena (quella più tensiva), i discorsi fatti e soprattutto ciò che segue questa sequenza (perché alla fine il significato di una singola sequenza, nel cinema, è pur sempre dato da un montaggio) incominciano a farci entrare sempre di più dentro il protagonista, un uomo geniale, in gamba, ma incompreso e solo. Non è un caso, infatti, che la sequenza successiva sia la citazione maggiore a Citizen Kane, richiamato con un rimando doppio: sia alla scena iniziale quando a Kane cade l’ampolla (senza l’uso di un grandangolo spinto), sia alla scena del tentato suicidio, di cui richiama i tempi scenici e parte dell’inquadratura. Tale costruzione serve dunque a sottolineare come Mank parli della realizzazione di Citizen Kane?

Mank

Questioni di stile: la “Rosebud” di David Fincher

Nel 2018 Netflix distribuisce The Other Side of the Wind film incompleto di Orson Welles. Nel 2018 il colosso dell’on demand distribuisce anche un’altra opera: They Love Me When I’m Dead, un docufilm sul making of proprio di The Other Side od the Wind. L’ottica di Netflix diviene dunque abbastanza chiara e precisa, non solo in un metaforico paragone del proprio lavoro all’interno dell’industria cinematografica con uno dei registi più famosi anche tra il pubblico non cinefilo come Welles, ma anche proprio nell’intento di porsi sempre di più in vista per la qualità dei suoi prodotti. Bistrattata e, a volte, ancora fischiata ai festival, Netflix ha dimostrato nel corso degli anni un’attenzione sempre maggiore ad alcuni progetti da produrre o distribuire, d’altronde sempre del 2018 è Roma, che dimostra un chiaro tentativo della piattaforma di farsi ben notare (ma anche ben volere) da alcune realtà come l’Academy stessa.

In questo sfoggio sfarzoso, che oggi viene sicuramente minato dall’entrata in campo di altre piattaforme, rientra anche l’esplicita voglia del colosso americano di avvicinarsi sempre di più a un regime di produzione e distribuzione precedente, quello dell’Hollywood classica degli anni Trenta-Quaranta. L’Hollywood dove il produttore aveva l’intero controllo sul film, dagli attori, alla campagna marketing, fino alla distribuzione (da sottolineare come Netflix stia adottando questa politica sia con i contratti con attori come Adam Sandler, sia nell’acquisto delle prime sale cinematografiche); il potere di un film risiedeva ancora nello storytelling, sebbene agli sceneggiatori non fossero riconosciuti i giusti meriti (rispetto a ciò, entrando più nello specifico nel caso di Mank, è interessante notare come il ritmo dei dialoghi ricalchi proprio il fast dialogue delle screwball comedy di quegli anni); e dove emergevano alcune figure come Howard Hawks, ma anche lo stesso Orson Welles, figure che, soprattutto oggi con l’avvento di una cinefilia tipica da tastiera dei social network, vengono ricondotte facilmente allo splendore di un’epoca di “grandi film”. Accettate tali premesse, non risulta strana la decisione di Netflix di produrre Mank e neanche la campagna marketing messa in atto, che lo ha, fin da subito, mostrato come il film sul dietro le quinte di Citizen Kane, caposaldo della storia del cinema e opera maggiore e più famosa del giovane prodigio Orson Welles.

Aaron Sorkin, sceneggiatore e autore di un altro film di David Fincher, ovvero The Social Network, proprio nel parlare della sceneggiatura che gli valse l’Oscar nel 2011, disse che quello che lo aveva attratto «non aveva nulla a che vedere con Facebook». Lo stesso aneddoto è utile per iniziare a spiegare come anche Mank non abbia nulla a che vedere con Citizen Kane. Non solo la realizzazione stessa del film è rilegata a un minutaggio più ridotto rispetto alle scene dedicate alla lotta interiore dello sceneggiatore, ma anche la stessa sequenza dove l’opera di Welles è citata più vistosamente è comunque strettamente legata non alla stesura della sceneggiatura, ma ai problemi d’alcolismo di Mank. D’altronde, lo stesso Orson Welles appare realmente, e non come fantasma, alla fine del terzo atto dopo e all’interno di un vero e proprio buco di struttura non abbastanza “set-uppato” (nota a margine, infatti, Mank è un film ben costruito che però da almeno metà del secondo atto in poi dosa male il proprio montaggio alternato creando un notevole calo di ritmo). Perché non dare un degno set up alla sua figura se il film tratta dell’autorialità di Citizen Kane? La realtà dei fatti è che poco interessava il discorso vero e proprio su Citizen Kane e sull’autorialità dello script (quanto fosse di Welles e quanto di Mank). Infatti, al di là del fatto che la magia del cinema sta nel raccontare in modo più arguto ed eccitante la storia di una persona, aggiungendo anche diversi elementi di pura fantasia, come accade in ogni film biografico (da tenere a mente la nozione “hitchcockiana” e “alleniana” sulla differenza tra noia e interesse nella vita e nel cinema), diventa fondamentale la scena, di pura invenzione, del monologo sul Don Chisciotte.

Mank

Oltre a essere una delle poche sequenze di fine film dove l’attenzione dello spettatore ritorna prontamente vigile e oltre a essere una delle sequenze più belle dell’intero lungometraggio, la cena al castello di William Hearst in cui un Mank ubriaco delinea, in teoria, il filo di Arianna di Citizen Kane risulta fondamentale per una corretta lettura di quest’opera, che viene portata fuori da ogni possibile collegamento con la lotta di autorialità tra Welles e Mank. Infatti, sebbene nel monologo del personaggio/sceneggiatore si delinei la trama di Citizen Kane e la caratterizzazione di Kane stesso, ciò, nel modo in cui la regia e la sceneggiatura hanno strutturato e costruito il racconto filmico, allo spettatore giunge solo in secondo piano. Hearst appare sullo schermo in poche occasioni e in quelle occasioni viene sempre fatto vedere come figura benevola e ben disposta nei confronti di Mank (come nella sequenza in linea d’aria con il primo plot point). Tutta la descrizione fatta dal nostro protagonista e che dovrebbe ricalcare quella di Hearst non giunge dunque al pubblico come tale, in quanto non si hanno abbastanza elementi pertinenti, ma risuona comunque familiare e alienante. Il “Don Chisciotte” di cui parla Mank, infatti, agli occhi degli spettatori non può che ricordare Mank stesso. Non si tratta quindi di una scena  su come è stato ideato Citizen Kane (tra l’altro è una scena di pura finzione), ma questa diventa il fulcro di un discorso sulle fragilità di Mank in quanto essere umano.

In quanto essere umano e non in quanto sceneggiatore perché, sebbene l’ultima opera di Fincher tratti anche la questione relativa alla figura dello sceneggiatore e alla sua autorialità all’interno degli studios in un’ottica “fitzgeraldiana” (I racconti di Pat Hobby ne è solo un esempio) e “ben hechtiana”, questa rimane semplicemente una lettura molto interessante ma che non coglie appieno l’intero portato di un film come Mank. Fincher è sempre stato, infatti, un regista che ha sempre posto molta attenzione ai progetti a cui ha deciso di partecipare, scegliendo sempre script che si potessero ben agganciare a una sua visione. Con la macchina da presa, soprattutto nel modo in cui giostra nei titoli di testa, riesce a imporre un proprio segno grafico e la propria personalità, lasciando piccoli indizi nella costruzione filmica. Ecco che non risultano casuali (ma cosa nel cinema lo è?) la scelta di dare maggior rilevanza stilistica e di tempo ai flashback, incorniciati con l’heading tipico della forma della sceneggiatura, che serve a discostarsi in primis dalla prima lettura di Citizen Kane, ma che in aggiunta al fermo immagine finale assume tutt’altro significato. Quel fermo immagine su Gary Oldman (e non su Mank, scelta particolare in un film biografico) sottolinea sempre la volontà di non parlare di Mank, ma della figura dello sceneggiatore in generale, eppure come è mostrato questo fermo immagine? Tramite uno zoom, che entra sempre più dentro gli occhi e l’animo del proprio protagonista. Si vuole entrare e non rimanere all’esterno, ma entrare dentro chi? Si ritorna a Mank? E qui si aggiungono quelle scritte finali.

Mank

Tra le diverse frasi che compaiono sovraimpresse, sebbene non sia la più forte a livello emotivo, una delle prime a comparire rimane anche la più significativa: “Non scrisse più sceneggiature, né lottò per inserire il suo nome nei credit”. Eppure basta cercare un attimo su un motore di ricerca come IMDB per notare quanto tale frase, poetica sì e vera per molti sceneggiatori, sia non appurata nel caso di Herman Mankiewicz. Se su IMDB, tuttavia, si cerca il nome di un altro sceneggiatore, che lavorò come ghost writer (stessa figura a cui rimanda Mank con quell’aurea spettrale sottolineata a più tratti dalla musica), per esempio, nella prima stesura del soggetto di quello che diventerà Aviator, e che è lo sceneggiatore proprio di Mank, ossia Jack Fincher, padre di David Fincher, morto nel 2003 dopo una lunga battaglia contro il cancro, il risultato è molto simile a quella malinconia che quei titoli finali danno al pubblico. E così si spiega anche come e perché Fincher, abilissimo maestro nel mettere al servizio la propria arte a quella narrativa, riconoscendo sempre, però, dove effettuare cambi di “montaggio”, qui si mimetizza sempre di più, lasciando anche correre quell’evidente errore di ritmo tra il secondo e il terzo atto che poteva essere benissimo evitato con una riscrittura in fase di produzione e post-produzione.

Mank, allora, non vuole trattare né di Citizen Kane, né di Orson Welles o di Herman Mankiewicz e neanche degli “sceneggiatori in catene”, parla di un tutto, ma non di questo. Parla della totalità profonda e spiazzante di una lettera di un figlio verso un padre e la sua arte. E se, dunque, Herman Mankiewicz e gli “sceneggiatori in catene” costituiscono il desire di quest’opera, il suo vero need è semplicemente un caldo gesto umano: il “Rosebud” di David Fincher.

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