«Capitolo primo: adorava New York, la idolatrava smisuratamente. Ma no, è meglio: “la… la mitizzava smisuratamente”. Ecco… “per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin”. No, fammi cominciare da capo. Capitolo primo…»
Welcome to Fear City
Qualcosa, è chiaro, si ruppe. All’alba degli anni Settanta gli equilibri sociali, politici, culturali finirono per sfaldarsi in un’orgia di isterica effervescenza sotto gli occhi di una città insonne, allucinata. Nel 1971, uno studio della Ford Foundation dichiarò che si stava assistendo ad “un generale deterioramento dell’ambiente cittadino, visibile e palpabile nelle strade, nella metropolitana, nell’aria e nell’acqua per tutta New York” [1]. Le previsioni, tutt’altro che rassicuranti: a hard rain’s a gonna fall. I due sindaci che presero in mano la città in quel decennio, Lindsay (1966-1973) e Beame (1974-1977) , dovettero innanzitutto far fronte ad una grave crisi fiscale che stava succhiando via il dolce nettare verde dalle casse newyorkesi. Lindsay e Beame tentarono di far affidamento sull’allora presidente Ford che, in uno slancio di pia fratellanza patriottica, declinò la richiesta di salvataggio dei due disperati con un secco “Drop dead!” (“che possiate morire”). Grazie Signor Presidente, seguiremo il suo consiglio.
La metropoli non ruggiva più da anni, sbraitava semmai, sudando con la lingua penzolante: la vita costava sempre di più e le prospettive lavorative si stavano progressivamente riducendo a commercio di eroina e sfrenato puttanesimo. La fuga della classe media fu un sintomo obbligato, cosicché mandrie di polo Ralph Lauren galopparono furenti verso il New Jersey e il Connecticut. L’impatto di violenza e degrado fu così massiccio che, a metà del decennio, truppe di baffuti poliziotti in borghese simili a John Holmes si misero a distribuire volantini raffiguranti un accogliente tristo mietitore con su scritto “Welcome to fear city”: una sorta di simpatico opuscoletto con pillole di sopravvivenza per gli abitanti della città (stare lontani dalle strade dopo le 18, diffidare da una Manhattan ormai lurida anche nelle prime ore serali, evitare assolutamente la metropolitana). Insomma, un’ottima cartolina da mandare alla zia Mary del Vermont. Eppure, ricorda Jason Bailey, «le qualità che stavano rendendo la città così poco attraente per i turisti erano le stesse che attiravano i registi, per fare film che spesso promuovevano la sua equivoca immagine da letamaio» [2]. Pauline Kael rincara la dose: «New York è sempre New York. Non può essere qualcos’altro e, praticamente senza falsificare nulla in studio, le case cinematografiche usano quello che c’è davvero qui; perciò, i film fatti a New York sono ambientati ad Horror City» [3].
Il periodo della Hollywood Renaissance non fu certamente un’evoluzione casuale del sistema: è vero, i vecchi mogul stavano tirando le cuoia (o lo avevano già fatto) e risultò sempre più difficile incontrare il gusto del pubblico. E, certamente, i fattori che portarono a quello che fu lo zenit della cultura e dell’estetica hollywoodiana non si possono far coincidere esclusivamente con l’avvento di giovani stronzetti (oggettivamente talentuosi ed in certi casi veri e propri artisti) usciti dall’NYU col mito del cinema europeo e di Guido Anselmi.
Era New York, meraviglioso letamaio, con la sua metamorfosi tormentosa ad aver stabilito quella nuova estetica, spesso rude, sporca, infame. La realtà cambiò volto e, con essa, i suoi paradigmi di rappresentazione, che finirono per ridefinire totalmente l’immagine della città e del cinema stesso, imponendo ai nuovi auteurs di interiorizzare le inquietudini e gli orrori post-sessantottini della Grande Mela e, in generale, dell’America. Ora, senza eccedere nell’enciclopedismo, al di là dell’iconico inseguimento di The French Connection, dell’epica moderna di The Warriors e della follia disperata del più tardo Bad Lieutenant, sono probabilmente tre i registi che più di altri hanno mantenuto un legame simbiotico con New York, celebrandola in tutta la sua misera, violenta, sublime mitologia: Sidney Lumet, Martin Scorsese e, ovviamente, Woody Allen.
Considera un ebreo, ovvero una breve ed assolutamente non necessaria parentesi biografica
Si consideri un ebreo, nato a metà degli anni ’30, ventiquattro giorni prima di Cristo, basso di statura, occhiali spessi e capelli rossi che gli varranno l’appellativo di “red”. Trascina la sua esistenza da “bimbo lentigginoso e giovinastro eternamente insoddisfatto” tra le strade di Brooklyn, imparando la nobile arte del newyorkesismo, passando prima per la circoncisione e un bar mitzvah sul modello dei Bassifondi di Gor’kij. Ora, non si dimentichi che gli anni ’30 sono anni di profonde trasformazioni per una New York in piena Depressione, eppure l’ostinata mitomania della città non si fa arrestare dalla crisi. È questo, infatti, il periodo in cui la metropoli radicalizza il suo processo di trasformazione urbanistica, istituzionalizzandosi gradualmente come “la città dei grattacieli”. Come ricorda Antonio Monda: «Sapete quando è stato costruito l’Empire State Building (all’epoca il grattacielo più alto del mondo)? Nel pieno della Grande Depressione. New York è una città dove, nel momento più tragico, si decide di costruire un grattacielo, il più alto del mondo, e dice molto sul carattere della città» [4].
Certo, erano ormai quarant’anni che interminabili palate di cemento afrodisiaco stavano pian piano risolvendo la disfunzione erettile dell’asfalto metropolitano; ma sono gli anni post ‘29 quelli in cui s’assisterà alla progressiva colonizzazione dell’etere newyorkese da parte di forme falliche sempre più enormi, spigolose, rigide. Era come se il catrame solidificato della metropoli non riuscisse più a trattenere la propria concitazione libidinosa sotto l’avvenente firmamento dello stato. Può sembrare un dato assolutamente ininfluente, ma il fatto che Allen sia nato nello stesso momento in cui la nuova e definitiva immagine di New York stava anch’essa nascendo dice molto sul legame d’appartenenza (forse anzi di dipendenza) tra la sua opera e la città.
Comunque, l’amore di Woody per il cinema lo accompagna sin dai cinque anni quando, con la cugina Rita (“il vero arcobaleno della mia infanzia” [5]), appassionata cinefila, inizia a frequentare il Midwood di Brooklyn per “vedere tutto quello che sfornava Hollywood, film di serie B compresi” [6], innamorandosi delle champagne comedies. Non ama leggere, se non i fumetti, e i grandi della letteratura si presenteranno alla porta del giovane Woody solo alla fine delle superiori, quando avrà “gli ormoni in subbuglio” e inizierà a notare “le ragazze con i capelli lunghi e lisci, niente rossetto e poco trucco, che andavano in giro con maglioni a dolcevita neri, gonne e collant dello stesso colore e grosse borse di pelle, brandendo copie della Metamorfosi di Kafka con annotazioni ai margini tipo «Sono d’accordo» o «Cfr. Kierkegaard»” [7]. Una di queste è Harlene Rosen, con cui si sposerà a soli 19 anni trasferendosi poi a Manhattan. Qui la fortuna: scriverà pezzi per i grandi comici dell’epoca e testi umoristici per diversi spettacoli televisivi, fino al Tonight Show di Johnny Carson.
Nel 1964 approderà a Broadway con due sue commedie e cinque anni dopo, finalmente, il cinema, terra promessa del piccolo zelota. Se dai primi film come Prendi i soldi e scappa, Il dittatore dello stato libero di Bananas, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso… emerge il gusto per la parodia, la caricatura e l’assurdo (con evidenti rimandi alle gag dei fratelli Marx e di Chaplin), la consacrazione autoriale, soprattutto in Europa, arriverà nel 1977 con Io e Annie. Ecco che l’arte del comico incontra lo struggimento, l’esistenzialismo, l’angoscia delle nouvelle vagues d’oltreoceano.
«Il regista respira appieno il fermento culturale statunitense alla fine degli anni 60, che porta a rivalutare culture ritenute marginali come quella ebraica, la cui caustica ironia diventa uno degli aspetti più inconfondibili della sua poetica. Il lavoro di elaborazione delle proprie radici va di pari passo con l’assimilazione personale dell’opera di autori europei, che rimangono costanti nella sua produzione: Dostoevskij, Cechov, Flaubert, Kafka sul fronte letterario; mentre Bergman, Antonioni e Fellini lo sono su quello cinematografico» [8].
Manhattan, ovvero un appassionato elenco di alienazioni per sopportare meglio il tragicomico peso dell’insensatezza della vita
«Ripensando a Manhattan, devo dire che in gran parte fu un colpo fortunato» [9] Effettivamente, Woody conosceva qualcuno. Durante le riprese del film, Allen e la troupe vennero a sapere che una notte ci sarebbe stato uno spettacolo di fuochi d’artificio mai visto prima. Fermarono tutto, si piazzarono a casa di un amico che abitava nel Beresford e ripresero le iconiche immagini con cui inizia Manhattan. Ancora, mentre la New York Philharmonic Orchestra stava registrando Gershwin, New York fu presa in ostaggio da una bufera di neve. Immediatamente quindi, Allen mandò un operatore nel suo attico affinché potesse catturare la città velata di bianco. Detto fatto. «Ho sempre avuto l’impressione che certe cose mi capitassero nel momento giusto» [10].
L’idea per Manhattan (trailer) nacque durante le riprese del precedente Interiors, un dramma esplicitamente bergmaniano che, fatta eccezione per alcune recensioni entusiaste, non riscosse certamente il successo di Io e Annie (a detta di Allen, «sarebbe stato più interessante nelle mani di un drammaturgo più esperto o più bravo di me» [11]). L’intenzione, insieme a Gordon Willis, fu quella di realizzare una storia d’amore ambientata a New York, in bianco e nero e in widescreen. Ora, il widescreen non è certamente la prima opzione per una commedia romantica: si tratta di un formato dalla grande spettacolarità visiva che di fatto veniva usato per western e war-movie. Tuttavia, nei propositi dei due, vi era quello di usarlo per trasmettere al meglio l’intimità delle relazioni amorose.
Insieme allo sceneggiatore Marshall Brickman, Woody non si fa intimorire dall’insuccesso recente e continua a rischiare, mantenendo la bussola orientata all’Europa. Ma questa volta i tratti identitari del regista, della sua New York, dei suoi anni di autore televisivo e teatrale sembrano esistere come dati ancor più concreti, ancor più reali. Il manierismo di Interiors, il suo dramma volutamente derivativo ma inefficace, incontreranno una maturità autoriale che sconvolge la poetica dell’autore e il suo pubblico. Apparirà tutto minuziosamente orchestrato: là dove la messa in scena risponde a dei criteri estetici misurati, rigorosi, cautamente citazionistici, il racconto si fa territorio di scambio tra il dramma intimo dei personaggi, quello d’appartenenza ad una città decadente, ed un’ironia che sempre di più appare come risposta palliativa ad una realtà insopportabile.
Il buonsenso giunga in soccorso, perché non esiste niente di più inutile e noioso della recensione di un film così iconico uscito quarantacinque anni fa. Forse solo l’esibizionismo del giovane cinefilo che, forzandosi a bere vino bianco in un’espressione paretica di fatica e disgusto, tenta in ogni modo di dire qualcosa d’interessante su Manhattan, mettendo a nudo il proprio spessore culturale con formule d’ovvietà dal vago sentore classista di fascismo cinéphile (la seconda fase, prima che il vino risalga, è quella della nobilitazione dei propri problemi psicologici e sessuali aggregati all’intellettualismo di Isaac e Mary). Ma anche perché l’antologia critica del film è fittissima e le opinioni di Rondi (Il Tempo, 31 ottobre 1979), Kezich (Panorama, 12 novembre 1979), Moravia (L’Espresso, 18 novembre 1979) sono forse un tantino più organiche ed illuminanti di queste righe.
Preme, tuttavia, in virtù di quanto detto all’inizio, ragionare brevemente sulla città di New York nell’opera di Allen, alla luce dei radicali mutamenti di cui sopra. Perché diversamente dalla crudezza dei film sopracitati (e di altre pellicole cult come Serpico, Il giustiziere della notte, Taxi driver), Manhattan sembra scegliere vie traverse per raccontare la città: Allen, infatti, tende ad interiorizzare quel clima d’irrecuperabilità, a psicanalizzarlo, a ricercare metafore e simboli di quel decadimento tutto americano. Racconta cioè la metamorfosi di New York non attraverso l’immagine della Fear City, ma servendosi essenzialmente di un uomo ossessionato dalla paura di rimanere solo e incapace di “avere relazioni che durino più di quella tra Hitler ed Eva Braun”.
Dice Jason Bailey: «In queste spiritose commedie urbane con sfumature drammatiche, la gente ben istruita, ben educata, interamente bianca dell’Upper East Side scambiava battutine da Elaine’s e alle serate di raccolte fondi di Bella Abzug, e poi anche partner sentimentali. L’alter ego di Allen sullo schermo ammette, nella prima sequenza di Manhattan, la sua inclinazione a romanticizzare la città “smisuratamente”; e lo stesso faceva il regista, che in quel film tagliò una battuta sulle rapine durante un giro in carrozza a Central Park, per non rovinare l’atmosfera» [12].
Vi è, in questa diversa narrazione che oscilla tra la dolce mistificazione e l’alternativa, il fatto che Allen si sia sempre mosso al di fuori della cerchia dei movie brats (Scorsese, Coppola, De Palma, Spielberg…), anche per motivi anagrafici. Scegliere un racconto visivamente più edulcorato rispetto ai film della New Hollywood può, sì, riferirsi ad un amore quasi infantile (quindi glorificante) verso Manhattan, ma anche testimoniare una visione assolutamente indipendente, pura, rispetto al Rinascimento hollywoodiano. Come sottolinea Elena Dagrada: «Quanto a Woody Allen, sembra che viva su un altro pianeta. O meglio, vive effettivamente dall’altra parte dell’America e con Hollywood – indignazione morale a parte – ha poco o niente a che fare. Come poco o niente aveva avuto a che fare dieci anni prima, in fondo, con la New Hollywood, salvo per un comune gusto citazionistico decisamente metalinguistico, insufficiente però a stabilire un legame vero, a sancire una condivisa seppur implicita dichiarazione di intenti. Perché se è vero che Allen esordisce nella regia in anni chiave per la destrutturazione di Hollywood […] e che, come tanti colleghi, tende all’inizio a girare in fretta e a budget ridotto, è altrettanto vero che il suo percorso, autoriale ma anche produttivo, è assolutamente autonomo» [13].
Lo stesso Scorsese, in effetti, sottolinea un certo sentimento di estraneità di fronte ai film di Allen: «I film di Woody Allen, quando li ho visti per la prima volta, soprattutto quelli degli anni 70 – Io e Annie, Manhattan e gli altri – per il mondo che ritraevano, erano stranieri. Mi piacevano, ma per me erano film stranieri» [14]. Non si tratta di indici di realismo, di gerarchie qualitative; uno Scorsese non è meglio di un Allen e un Allen non è meglio di un Friedkin. Si tratta di vissuto, di materie culturali, d’apprendimento, di volontà artistica ed autoriale, spesso incomparabili. Gli scorci di vita altoborghese di Manhattan offrono ad Allen ciò che una violenta Little Italy può offrire a Scorsese: una forma di confessione, di elaborazione traumatica, di identificazione. Comunque, in ogni caso, la possibilità di dare corpo e voce ad un entità che oltrepassa le frontiere fisiche del luogo: New York.
In Manhattan, l’isola di Woody non si limita ad essere contorno della vicenda, mera ambientazione, ma assume l’importanza drammatica di un personaggio, con le sue deformazioni e le sue glorie. «Perché Manhattan – al pari di Parigi – al cinema non è mai solo una città-sfondo bensì è una città-personaggio» [15]. E questo perché non esiste altra città legata in maniera così ossessiva, feticistica, viscerale al cinema come New York; non solo perché è la città più filmata di sempre (generando così uno squisito e destabilizzante senso di familiarità in tutti coloro che mai hanno calpestato il suolo della città), ma anche perché una storia ambientata a New York non si limita mai ad essere soltanto una storia ambientata a New York. L’assenso e il disappunto, il traffico e la quiete, l’affollamento e la desolazione, il buio e lo splendore sono gli stati d’animo di un luogo sognato, bramato, ricordato. E Allen non smette mai di decantarne la meravigliosa indifferenza.
Riprendendo le parole di Moravia: «Manhattan è una mano che si sporge tra due fiumi, l’Hudson River e l’East River. Le ‘avenues’ sono le dita di questa mano, le ‘streets’ tagliano le dita orizzontalmente, come le strisce di un guanto da sci. Broadway infine serpeggia bizzarra e irregolare attraverso la mano. Sulla quale sta tutto ciò che conta a New York, che fa di New York la città che si chiama New York. Perché è bella Manhattan, cioè New York? […] Perché è l’espressione di un momento storico dello spirito umano […] una città-persona in cui non c’è niente da salvare, una città che ha avuto un’infanzia, un’adolescenza, una giovinezza, una maturità e oggi forse ha una sua strana, potente vecchiaia. A questa città-persona, Woody Allen, in Manhattan, dedica una specie di inno, un po’ paragonabile a quello dedicato da Baudelaire al suo “sombre Paris”» [16].
Sin dalle prime immagini, appare chiaro come l’intenzione celebrativa della città prevalga sulla storia d’amore, pur mantenendosi consapevole delle miserie che la dominano («Adorava New York, anche se per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. Com’era difficile esistere, in una società desensibilizzata dalla droga, dalla musica a tutto volume, televisione, crimine, immondizia…»). Su questo, Dagrada scrive: «Fin dalla sua apparizione, nella sequenza d’apertura immaginata da Ike, Manhattan si rivela una città carnale, erotizzata dall’immaginazione di chi, abitandola, ne fa l’oggetto dei propri sogni e dei propri desideri; tanto che, più che un apparizione nella mente di Ike, ha luogo un vero atto d’amore dove il ritmo sempre più regolare del montaggio, verso la fine, lascia posto all’esplosione del piacere che si materializza nello scoppio dei fuochi d’artificio […]» [17]. Allen sembra proiettare quindi sulla città un sentimento oscillante tra platonica libidine e shakespeariana adorazione, concedendosi di tanto in tanto una sigaretta d’autoanalisi post-coito.
A Manhattan ci si diverte: si possono visitare musei d’arte contemporanea commentando la “meravigliosa capacità negativa” di cubi d’acciaio e la “stupenda pulsione” di pezzi di ferro assemblati casualmente; andare al cinema e scegliere di spassarsela con Inagaki o Dovzenko, magari discutendo della loro “stupenda diversità”; innamorarsi in un planetario, sperando che la persona che si ha davanti possa sempre dire qualcosa di più interessante di noi; organizzare spedizioni punitive con mazze da baseball contro raduni di neonazisti; o, semplicemente, attendere l’alba contemplando innamorati il ponte della cinquantanovesima strada.
Ora, queste immagini parrebbero evocare un quieto sentimento di pace (soprattutto quella sulle mazze da baseball e i neonazisti), di calda appartenenza, eppure nascondono una tragicità essenziale che è poi la stessa che abita le indecifrabili strutture della città. Che sia Isaac, Mary, Tracy, Yale, Emily o Jill, tutti appaiono profondamente assuefatti ad un’ideale intangibile, un’illusione: Isaac dipende pericolosamente dall’altro, da relazioni tuttavia destinate al fallimento; Mary ugualmente cerca una risposta che il suo intellettualismo narcisistico non riesce a darle e lo fa buttandosi in relazioni consumate; Tracy si lascia teneramente ingannare da un amore impossibile, aleatorio; Yale anestetizza la propria incapacità di dire e di dirsi la verità comprando automobili e giocando a squash; Jill utilizza il patetismo autobiografico sperando di elaborare il divorzio con Ike; infine Emily, l’unica apparentemente che sembrerebbe aver trovato un equilibrio, consapevole dei “piccoli compromessi” della vita, proiettando tuttavia le ultime speranze nel vagheggiato desiderio di maternità.
Ogni personaggio di Manhattan (ogni newyorkese quindi) gravita attorno a questa squisita menzogna, a questa promessa di grandezza che solo una città come New York può dare, a questa Grande Illusion che ciclicamente torna più o meno esplicitata. Solo quando sarà costretto alla solitudine (verosimilmente provvisoria), quindi a guardare in faccia il grande inganno, Isaac tenterà di psicanalizzare la sua esistenza: «Idea per un racconto sulla gente a Manhattan che si crea costantemente problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali. Deve essere ottimistico, perché vale la pena di vivere? È un’ottima domanda. Beh, ci sono certe cose per cui vale la pena di vivere: per esempio, per me, direi il vecchio Groucho Marx, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele, pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo, il viso di Tracy». Un appassionato elenco di alienazioni per sopportare meglio il tragicomico peso dell’insensatezza della vita.
Between the moon and New York City
Manhattan fu un grande successo, ovunque. Andò bene in tutta Europa, in Sud America e nell’Estremo Oriente. Eppure, Allen non fu inizialmente soddisfatto: «alla United Artists proposi di fare un film gratis se non lo avessero distribuito» [18]. La sorpresa fu molta quando il film registrò consensi così ampi. Ottenne svariati premi ed altrettante candidature (di cui una agli Oscar come miglior sceneggiatura). Teorie cospirazioniste ritengono che l’Academy non l’abbia premiato per l’atteggiamento snob ai tempi della vittoria con Io e Annie, o perché forse Woody aveva proibito alla United Artists di masturbare la propaganda del film con gli Oscar ottenuti. Ad ogni modo, per capire l’importanza che Allen dà al “circo dei premi” [19], si consideri che tra la conquista di un Oscar ed uno schizzo di saliva dalla tromba di Louis Armstrong, Woody non esiterebbe a farsi sputacchiare in faccia da Satchmo. Manhattan, al netto delle minime stroncature, fu il film che inorgoglì i discepoli e convertì i miscredenti. Il film che segnò un nuovo inizio nella sua carriera, ridefinendola verso un percorso straordinariamente più maturo. Il film che mimetizzò il dramma d’una città in tragedia dell’esistenza, e la tragedia dell’esistenza in una magnifica illusione. Manhattan illude, ma la potenza seduttiva annienta le nostre pretese di lealtà. Manhattan inganna, ma sembra folle non amarne la menzogna. Perché quando sei lì, tra la luna e il Queensboro Bridge, il meglio che puoi fare è innamorarti. E tu lo fai.
BIBLIOGRAFIA
Jason Bailey, Fun City Cinema. New York in un secolo di film, Jimenez Edizioni
Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau
Woody Allen, A proposito di niente, La nave di Teseo
Kristin Thompson, David Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, McGraw Hill
SITOGRAFIA
New York, il suo mito attraverso il cinema – Antonio Monda, https://www.youtube.com/watch?v=RAYR-RB01ps
Quando New York faceva paura, rivistastudio.com/quando-new-york-faceva-paura/
NOTE
[1] Jason Bailey, Fun City Cinema. New York in un secolo di film, Jimenez Edizioni, pp.163
[2] Ivi, pp.164
[3] Ibidem
[4] New York, il suo mito attraverso il cinema – Antonio Monda (https://www.youtube.com/watch?v=RAYR-RB01ps), 21:27
[5] Woody Allen, A proposito di niente, La nave di Teseo, pp.23
[6] Ivi, pp.24
[7] Ivi, pp.17
[8] Kristin Thompson, David Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, McGraw Hill, pp.337
[9] Woody Allen, A proposito di niente, La nave di Teseo, pp.210
[10] Ibidem
[11] Woody Allen, A proposito di niente, La nave di Teseo, pp.205
[12] Jason Bailey, Fun City Cinema. New York in un secolo di film, Jimenez Edizioni
[13] Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau, pp.25-26
[14] Jason Bailey, Fun City Cinema. New York in un secolo di film, Jimenez Edizioni
[15] Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau, pp.110
[16] Alberto Moravia, L’Espresso, 18 novembre 1979
[17] Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau, pp.112
[18] Woody Allen, A proposito di niente, La nave di Teseo, pp.214
[19] Ibidem