In spagnolo malqueridas significa letteralmente “donne non amate”. Quelle detenute nelle carceri del Cile lo sono con duplice accezione. Sul piano personale, falliscono nell’amarle i famigliari, che, seppur invisibili, lontani oltre le sbarre, procurano loro dolore con l’abbandono e l’esclusione automatica dal proseguo della “vita fuori”. A livello istituzionale, d’altra parte, le malqueridas cilene sono state immesse in un sistema che, anziché riabilitarle al vivere civile, punta su e mette in pratica la retorica della punizione, per cui coloro che hanno trasgredito la legge sono deliberatamente declassati a ‘meno di umani’, di cui bisogni, desideri e speranze vengono svuotati di qualsiasi valore sociale. Eppure, associato alle carcerate, il concetto di amore si carica di particolare significato non soltanto nella negazione di esso, ma anche nelle sue manifestazioni positive. All’interno dello spazio confinato della prigione, le donne diventano le une per le altre confidenti e amanti, madri e sorelle. Costituiscono un saldissimo ecosistema di affetti, che solo gli consente di continuare ad esprimere la loro umanità e, soprattutto, di continuare ad essere viste nella loro umanità.
Miglior film alla Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia 2023, il documentario cileno Malqueridas (trailer) approda a Roma in concorso alla seconda edizione dell’UnArchive Found Footage Fest, il giovanissimo festival nel cuore di Trastevere che dà visibilità a e valorizza le immagini ritrovate – prodotte con mezzi e modi professionali o amatoriali, promuovendone il recupero e la reinterpretazione creativa. Nel caso di Malqueridas, la totalità del materiale mostrato è stata realizzata dalle stesse donne al cuore del film. Con telefonini tenuti illegalmente nelle loro celle, hanno potuto catturare momenti di convivialità e intimità, stupore e tenerezza, che pure caratterizzano l’esperienza della reclusione. La regista Tana Gilbert, stabiliti efficaci canali di comunicazione con detenute in varie carceri del suo Paese, ha raccolto e selezionato foto scattate e video girati da loro, con il duplice obbiettivo di conservarli e di rappresentare attraverso di essi la forma che la vita può assumere laddove la si vuole silenziare.
Gilbert ha messo insieme e rielaborato numerose testimonianze in un singolo racconto. La voce narrante, prestata da Karina Sánchez – anche collaboratrice alla scrittura e lei stessa ex carcerata, ci conduce attraverso una storia di maternità sofferta e negata, che è poi quella della maggior parte delle donne cilene condannate a lunghi ed indeterminati periodi di prigionia. La convergenza di un’esperienza largamente diffusa in una rappresentazione dalle coordinate individuali rende Malqueridas riuscito in quanto ad intellegibilità. La comprensione di un fenomeno, soprattutto nelle dinamiche emotive che necessariamente lo definiscono, è di certo facilitata dall’immedesimazione con un’unica soggettività narrante, che si pone direttamente in dialogo con il fruitore. Ma, prima ancora, la qualità principale del documentario di Gilbert, ovvero la sua immersività, è garantita dalla natura stessa delle immagini che utilizza. Il punto di vista delle inquadrature è sempre quello delle detenute e il dispositivo di ripresa quello di cui dispone lo stesso spettatore, il cellulare. L’ostentata estetica pixellata che per un’ora e un quarto circa domina lo schermo è quanto di più familiare si possa incontrare nella sala di un cinema.
Peccato per il ritmo eccessivamente lento e monotono della narrazione e del montaggio, che non riescono a tenere alta l’attenzione di chi guarda per l’interezza del film. Nonostante questo, però, Malqueridas si rende senza dubbio una visione necessaria, capace di portare la realtà carceraria – con le specificità di quella femminile – al di fuori delle carceri, come difficilmente altri prodotti audiovisivi sono riusciti a fare prima. In un Paese come il Cile, in cui il 92% delle donne fa figli ed il 50% di loro è coinvolto nel traffico di droga, è di vitale importanza creare, per la popolazione nazionale, occasioni di riflessione sia sulle responsabilità sociali di una migrazione così massiccia verso le strutture penitenziarie che sulle disumanizzanti condizioni di vita nelle stesse. È per questo che il film di Gilbert non esita a dichiararsi orgogliosamente un’opera politica.