Passi durante la notte. Vetri infranti per terra. Calcolo millimetrico delle spese, in un gioco tra il bianco e il rosso, senza sfumature di verde. Uno sguardo freddo, quello della protagonista, uno sguardo impenetrabile che trasmette a pieno una mente che non può fermarsi a pensare, o meglio, deve solo calcolare per non essere inghiottita dalla tempesta emotiva di un’unica domanda, dalla forza di un urgano: cosa può essere considerato violenza? Questo è il punto da cui si sviluppa Maid (qui, il trailer), miniserie, in quasi dieci ore (suddivise in altrettanti dieci episodi), disponibile su Netflix e creata dalla drammaturga Molly Smith Metzler.
Ispirato al memoir di Stephanie Land: Domestica: Lavoro duro, Paga Bassa, e la voglia di sopravvivere di una Madre, la storia è quella di Alex , una giovane madre che durante la notte scappa di casa prendendo la figlia di quasi tre anni (Maddy) per paura del marito Sean, che soffre di attacchi di rabbia a causa di un grave problema di alcolismo. Quella che potrebbe essere l’inizio di una storia, per quanto vera e forte, forse già sentita, diventa l’occasione per esplorare da un’angolazione più concreta il processo di elaborazione di un trauma del genere, scavando fino ai nodi più gordiani che spingono sia la vittima a sottostare a determinate situazioni, che il carnefice a compierle. Non è un caso, d’altronde, che di puntata in puntata più che scoprire Alex, siamo chiamati a scoprire le figure che le girano attorno, soffermandosi più profondamente proprio su quelle negative.
Se il lavoro della protagonista per poter ottenere i sussidi statali, quello di colf (“maid”), diventa quasi una ricerca introspettiva ed investigativa sulle persone di cui si ritrova a pulire le case (in un paragone quasi immediato con l’opera di un’artista come Sophie Calle), anche il pubblico è chiamato a pulire/indagare su qualcosa, sulla reazione di Alex al suo stesso vissuto (e alla fine quel “Maid” dei titolo, a parte indicare l’unica fonte di salvezza per Alex, si aggancia anche proprio a questo modus operandi a cui è chiamato lo stesso spettatore). Nel farlo, si attua una compresenza partecipativa alla quale si arriva paradossalmente usando una focalizzazione che mixa una focalizzazione interiore a un piano puramente osservazionale. Si passa dalla visualizzazione dei conti, rappresentati al lato dello schermo, come se si stesse dentro la testa della protagonista, a una visuale fredda e invalicabile.
In ciò gioca molto anche l’intera recitazione di Margaret Qualley (C’era una volta a… Hollywood) che, nel ruolo di Alex, attua una mimica facciale quasi imperturbabile. Tale scelta formale permette al pubblico di immergersi meglio nel dilemma e nel trauma vissuto dalla giovane madre, che si ritrova a dover accettare in primis ciò che ha vissuto, domandandosi se la violenza emotiva possa o meno essere definita una “vera violenza”. Il ragionamento sullo statuto ontologico di ciò che ha vissuto diventa così agghiacciante per la protagonista da coprire l’intero comparto stilistico. Inoltre, tale freddezza aumenta il senso di irrealtà (in pieno accordo con la trauma theory)seguito dal filo delle varie puntate. Gli spettatori e le spettatrici, infatti, sono gettati all’interno di un flusso narrativo che sembra correre senza che nulla accada, fino alla consapevolezza e al relativo attacco di panico che inghiotte Alex.
Insomma, questa miniserie che sicuramente è passata più in sordina sulla grande piattaforma di streaming, è un racconto che basa la propria forza su uno studio accurato dello stile, che permette di rendere vivido e ruvido un racconto affatto facile da narrare. Così la macchina da presa, con la sua lente che, in maniera distaccata, registra tutto, pur ciò che paradossalmente si trova dentro la testa della protagonista (dalla sua contentezza esasperata, alla sua paura), raccogliendo con delicatezza i pezzi di ogni piccola sfumatura del trauma della consapevolezza, della consapevolezza di cosa significa violenza e di cosa significa esserne vittima.
Cosa può essere considerato violenza? Ogni forma aggressiva (verbale, fisica, emotiva) in grado di farti perdere la coscienza della tua volontà, del tuo spazio e del tuo corpo, facendoti diventare invisibile. E alla fine Maid di questo parla, di quel momento in cui finalmente si accetta di non essere invisibili e neanche infallibili e che alle volte si ha bisogno di un aiuto.