Nella notte degli Oscar di quest’anno Julia Reichert e Steven Bognar hanno sollevato la statuetta per il miglior documentario con Made in USA – Una fabbrica in Ohio, in originale American Factory (trailer). Il film è il risultato di quasi tre anni di riprese e di cammino insieme ai lavoratori di una fabbrica a Moraine (Ohio), appartenuta alla General Motors e rilevata dalla compagnia cinese Fuyao Group, attiva nella produzione di vetri per automobili. Non è la prima volta che la chiusura di una fabbrica della General Motors, un’azienda che rappresenta una entità industriale forte nel Midwest americano, entra nel campo d’interesse della macchina documentaria. Questo insieme di elementi sociali e territoriali ha infatti costituito il motivo d’impegno nonché nucleo tematico del film di Michael Moore Roger & Me (1989), come anche di The Last Truck: Closing of GM Plant degli stessi registi Reichert e Bognar, candidato agli Oscar 2010 come miglior cortometraggio documentario.
I due registi sono tornati ai loro posti per questo nuovo percorso in una realtà lavorativa già esplorata, sostenuti stavolta da due case di produzione come la Participant Media, conosciuta all’interno del cinema indipendente americano e incline al genere d’inchiesta, insieme alla Higher Ground Productions, gestita da Barack e Michelle Obama che con questo film esordiscono nel settore. A questa base produttiva si è aggiunto il trampolino di Netflix, consentendo un’ambiziosa distribuzione con la prospettiva di portare definitivamente a un pubblico internazionale questa realtà, forse ancora troppo poco discussa. I risultati del resto sono noti.
Venendo ai contenuti narrati dal documentario: con la riapertura della fabbrica per merito degli investimenti della Fuyao Group cinese, più di duemila americani ritrovano l’impiego e nella primissima parte il film esplora l’ottimismo di questa nuova collaborazione. Il CEO e fondatore dell’azienda Cao Dewang si presenta con l’intenzione di creare una “famiglia” sotto il tetto della nuova fabbrica, la quale unisce lavoratori e dirigenti sia americani che cinesi, rendendola simbolo di una fratellanza più ampia tra Stati Uniti e Cina. La fusione tra le due culture, il filo concettuale che accompagna tutto il film, trae però benefici solo sul versante finanziario, dal momento che su quello lavorativo assume i tratti di un vero scontro.
Gli operai cinesi risultano come “addestrati” a un lavoro obbediente e molto produttivo per onorare il proprio popolo in terra occidentale, un principio che riporta alla mente schemi tipici della guerra fredda; gli operai americani avvertono invece l’esigenza di opporsi a una tale rigidità operativa e di aderire a un sindacato locale, contro cui i vertici aziendali muovono una feroce campagna. Il racconto generale della vita nella fabbrica viene inframezzato da interviste a operaie e operai (anche cinesi) che con l’avanzare del tempo denunciano sempre più perplessità e disagi di fronte alla nuova gestione: dallo stipendio più che dimezzato rispetto ai tempi della General Motors, fino ai frequenti infortuni viziati da una scarsa spesa nella sicurezza dell’ambiente di lavoro.
Il legame “familiare” tra americani e cinesi millantato dalla nuova dirigenza sembra formarsi solo tra i lavoratori, poiché sono loro che condividono il tempo speso in fabbrica anche oltre il dovuto per soddisfare sempre e comunque l’obiettivo di produzione, compiendo inevitabilmente continui sacrifici. Made in USA – Una fabbrica in Ohio è in definitiva una storia che condensa il lungo lavoro di Julia Reichert e Steven Bognar e scosta nuovamente le pesanti tende che ancora nascondono certe ingiustizie nel mondo del lavoro, accendendovi sopra un riflettore cinematografico. Allo stesso tempo tratta il luogo-fabbrica come rappresentativo dell’intera società, soggetta ai cambiamenti del tempo, ma che saprà resistere solo se riuscirà a tenere ben ferma l’attenzione sul legame più importante, quello umano.