Senza mai abbandonare completamente la grinta e lo spirito guerrieri che da sempre hanno caratterizzato la sua filmografia, Liam Neeson ha colorato il suo percorso attoriale soprattutto di eroi e anti-eroi tragici in cerca di una rivalsa catartica e purificatrice. Ad eccezion fatta per i volgarissimi Un milione di modi per morire nel West (2014) e Ted 2 (2015) di Seth MacFarlane, il satirico Anchorman 2 – Fotti la notizia (2013) di Adam McKay, lo spirituale Silence (2016) di Martin Scorsese e il criptico La ballata di Buster Scruggs (2018) di Joel e Ethan Coen, la filmografia di Neeson dal 2010 ad oggi è una maratona soprattutto in salsa thriller e azione che non smette di tifare per lo stesso corridore. Pur variando la formula della storia – in The Grey (2011) di Joe Carnahan una guardia petrolifera guida i sopravvissuti di un disastro aereo lungo le montagne innevate dell’Alaska; in L’uomo sul treno – The Commuter (2018) di Jaume Collet- Serra un ex poliziotto è costretto a cacciare su un treno la misteriosa figura di Prynne per salvare la sua famiglia – il sostrato drammaturgico dell’incallito maratoneta rimane il medesimo: Liam Neeson vestirà i panni di un cavaliere esperto dal passato burrascoso che sarà ancora una volta prigioniero di una situazione critica e costretto nuovamente ad intervenire per salvare una comunità in pericolo (per comunità intendiamo anche la famiglia).
Prendendo anche in considerazione la drammaturgia dei testi in cui questa tipologia di personaggio agisce, ritroviamo narrazioni che inscenano volontariamente un “caccia e distruggi” all’americana, segno ideologico di un soffocante interventismo statunitense che scaturisce anche dalla paura di essere perenni bersagli di un nemico invisibile. L’azione armata e la guida lungo i sentieri ostili del territorio per mano del prescelto divengono, pertanto, le uniche soluzioni di un rebus squisitamente patriottico ed eccessivamente malsano che celebra l’ormai cronico “occhio per occhio”. Dunque, sotto l’apparente struttura d’azione dei film con Liam Neeson – il discorso si può estendere ulteriormente alle opere d’azione con protagonisti altri attori – si annidano tematiche socio-cultural-politiche che restituiscono il ritratto drammatico di una nazione (gli Stati Uniti) consumata dal militarismo esasperato, dalla paranoia esacerbante e da modelli ora in crisi come l’american way of life (non c’è un film con Neeson in cui la famiglia tradizionale non sia a rischio estinzione). Con le opportune differenze contestuali, i risultati sono prettamente opere costruite per mezzo di rimandi, parallelismi e comun denominatori che daranno vita o a commoventi spettacoli di presa di coscienza, come in The Grey, o a tournée sui ghiacci quanto mai soporifere caratterizzate da una languida povertà di inventiva, come ne L’uomo dei ghiacci – The Ice Road (2021, qui il trailer) di Jonathan Hensleigh.
Approfondendo la strada dei rimandi e delle differenze contestuali tra i film con protagonista Neeson, come in The Grey, anche ne L’uomo dei ghiacci – The Ice Road ritroviamo una sconfinata valle ghiacciata e innevata che sembrerebbe assurgere a corridoio esistenziale per la rinascita dell’eroe. Invece, se nel primo film la bianca ambientazione è estensione della mente di un protagonista quasi sopraffatto dai maligni ululati – The Grey è una memorabile storia di confronto tra l’Eroe e la sua Ombra nella Caverna/Tana più profonda – nel secondo questa diventa luogo infido che nasconde i pericoli di terroristi senza scrupoli ed entro cui il protagonista deve necessariamente calarsi per essere, infine, consacrato come eroe – quattro camionisti attraversano i deserti canadesi per soccorrere un gruppo di minatori rimasti intrappolati nel sottosuolo.
Pur essendo simile, l’ambientazione tuttavia muta i suoi significati ideologici a seconda del film: nel film di Carnahan essa si eleva a proposito per descrivere il cammino dello stoico, mentre nel film di Hensleigh essa diviene una trappola in cui immergersi masochisticamente per continuare a vivere. Al contrario di The Grey, che apre la seconda decade del 2000 invitando il soldato/cacciatore ad un’intrinseca meditazione circa il proprio passato e i compagni uccisi, L’uomo dei ghiacci – The Ice Road ci pone paranoicamente in guardia circa l’incerto futuro della terza decade – qui il film si cala contestualmente nell’era-Covid contemporanea. In questo secondo film l’ambientazione diventerà dunque un terreno d’addestramento che deve educare i futuri soldati a non fidarsi mai del terreno d’appoggio e a scovare il nemico invisibile. Palese è l’ideologia conservatrice!
Proseguendo ora sulla strada dei parallelismi e comun denominatori tra i film, Jonathan Hensleigh è l’ennesimo sceneggiatore e regista che ricuce addosso allo stanco Neeson l’immagine del rude avventuriero chiamato ancora all’azione e operante per la causa giusta dei subalterni/civili. Pur essendo un semplice camionista, il Mike di Liam Neeson è il soldato prescelto che guiderà la squadra fuori dalla catastrofe, come in The Grey, e che prenderà a cazzotti i cattivi una volta compresa la difficile situazione e affermato “Adesso mi hanno fatto arrabbiare”. Mike ha la medesima vocazione di tutti i gemelli Neeson extra-filmici: anche qui ha un familiare da proteggere e sa usare la violenza come Bryan Mills della serie Taken (2008, 2012, 2015), Jimmy Conlon di Run all night – Una notte per sopravvivere (2015) di Jaume Collet-Serra, Michael McCauley de L’uomo sul treno – The Commuter e in Un uomo sopra la legge (2021) di Robert Lorenz. Pertanto Mike è già un uomo tutto d’un pezzo che si è già formato in altre storie e che non aggiunge altro se non il nulla del già visto; inoltre i trascinati movimenti di Neeson e le conseguenti coreografie d’azione, così finte da risultare pessime, ci fanno augurare che il cowboy detentore della volontà del popolo – “Da sempre mangiano sulle nostre spalle” – appenda finalmente la fondina e si goda una legittima pensione.
L’uomo dei ghiacci – The Ice Road è uno spettacolo momentaneo e passeggero costruito su una narrazione che, una volta scoperto il cattivo all’incirca nei primi quaranta minuti, si tramuta in una soporifera fiera della banalità e dell’imbarazzante – quando la situazione precipita, invece di muoversi e inseguire il nemico, Mike richiama all’ordine il fratello Gurty affetto da afasia (Marcus Thomas) facendogli una ramanzina sul perché vengono sempre licenziati. Nonostante i rilevanti temi del disordine post-traumatico da stress, delle classi subalterne e del tradimento, tutto il film è circondato da un’aura di incompiutezza che calpesta i personaggi fin troppo anonimi: qui Liam Neeson è fin troppo anti-carismatico e non motivato ad agire se non dal semplicistico “faccio la cosa giusta”. L’unico fattore di divertimento è che nelle mani Neeson persino i camion possono diventare armi di distruzione (qui, tuttavia, una distruzione eccessivamente leggera). In conclusione, L’uomo dei ghiacci – The Ice Road di Jonathan Hensleigh diventa metafora paranoide dei tempi che saranno grazie all’uso della sua ghiacciata ambientazione e veste nuovamente Liam Neeson nei panni del soldato guida/salvatore attraverso un gioco di rimandi e comun denominatori.
Il film è nei cinema dal 2 dicembre.