Il 16 maggio del 1956 usciva sbancando al botteghino L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock. Remake dell’omonima pellicola del regista realizzata nel 1934 da «un dilettante di talento», come ebbe lui stesso a dire nella celeberrima intervista con Truffaut. Lì un giovane Hitchcock inglese, qui un affermato direttore adottato da Hollywood. Lì un livido bianco e nero, qui uno sfolgorante technicolor, degno predecessore di quello che verrà due anni più tardi con il magnifico La donna che visse due volte.
Per capire meglio L’uomo che sapeva troppo è necessario fare un passo indietro e inquadrarlo nell’opera più ampia del “maestro del brivido”. La pellicola si inserisce in quello che con sicurezza si può definire la sua fase più florida ed esperta, a cavallo tra la metà degli anni ’50 e gli inizi dei ’60, durante la quale produsse anno dopo anno i capolavori che più di altri lo resero immortale. Periodo di completa maturazione per i topos a lui cari, incastonato tra La finestra sul cortile (1954) e Marnie (1963). Fase dalla quale si innalzano come fari-testamento il già citato La donna che visse due volte (il titolo originale Vertigo rende maggiore giustizia all’essenza del film) e Psyco, probabilmente il lungometraggio più psicanalizzato della storia del cinema.
Tra queste e altre opere si inserisce appunto L’uomo che sapeva troppo, pellicola intrinsecamente hitchcockiana, eppure per molti versi atipica. Al centro della vicenda c’è per l’ennesima volta l’uomo comune chiamato a fronteggiare una minaccia improvvisa. La benestante famiglia americana dei McKenna: Ben (James Stewart), un affermato medico, la moglie Jo (Doris Day), cantante di successo, e il loro intelligente bambino Hank (Christopher Olsen). In visita turistica a Marrakech i tre vengono avvicinati da un gentile ma enigmatico uomo francese. Quando quest’ultimo colpito da un pugnale nella schiena, rivela morendo a Ben delle informazioni riguardo al piano di un omicidio ai danni di un eminente politico a Londra, la vita dell’allegra famigliola precipita in un incubo. Il piccolo Hank viene rapito dall’organizzazione criminale che ha in progetto l’assassinio e la sua vita è usata come ricatto per far tacere i genitori, che voleranno nella capitale britannica e faranno di tutto per stringere nuovamente tra le braccia loro figlio.
Se James Stewart nel ruolo del protagonista maschile non è certo una novità, è il femminile che assume una nota fuori dal comune. Il prototipo di donna nel cinema di Hitchcock è quello della fredda ed enigmatica bionda, ma in questa pellicola emerge con forza un altro lato della femminilità. Doris Day è sì bionda, ma nella sua magistrale interpretazione è anche accogliente, emotiva, materna. Persino una delle rapitrici di Hank, interpretata da Brenda De Banzie, si rivela umana, tanto da contribuire a salvare la vita al piccolo.
Come in altri suoi lavori Hitchcock alterna con sapienza commedia e dramma, generando la tensione propria della lotta del bene contro il male, che in L’uomo che sapeva troppo si configura innanzitutto musicalmente. L’intera pellicola è infatti scandita dalla musica, motore intorno al quale si dipanano immagini e azioni. È sulle note di un inno religioso che Ben e Jo riconosceranno i rapitori del figlio in una chiesa, generando un inquietante intreccio tra sacralità e malvagità. È sulla battuta dei piatti della Storm Clouds Cantata al Royal Albert Hall che il killer è pronto a uccidere l’uomo politico, in una scena che dilata il tempo all’inverosimile. È infine la serena cantata, leitmotiv del film, Que sera sera a vincere l’oscurità e a disciogliere l’intera vicenda. Anche grazie alla sua anima melodica l’opera riesce ancora dopo 65 anni a tendere e distendere al momento opportuno le corde emotive del pubblico.
Il genio dell’artista qui si rivela non tanto nel condurre la cinepresa a fondo, nel nero pozzo delle pulsioni umane, ma nella capacità di portare queste ultime in superficie, di farle emergere spontaneamente dall’intreccio di un thriller dalla trama piuttosto canonica. Se nel successivo Psyco la lente dell’obiettivo, a partire dal vortice di sangue che precipita nello scarico della doccia, si muoverà anche fisicamente in un’ affannata discesa nell’inconscio, ne L’uomo che sapeva troppo resta ancorata al livello di ciò che è visibile. Questo però non significa che rimanga inerte osservatrice. L’occhio meccanico viene a coincidere con l’occhio vivente dello spettatore, grazie alla maestria artigiana con la quale Hitchcock sa costruire mattone su mattone il mistero, la suspense, il tormento.
Non ci si ritrova faccia a faccia con la radice nascosta del male, ma con la sua non meno terribile manifestazione concreta. Male che è sempre in agguato, che si insinua nelle pieghe del quotidiano, a partire da quello che è solo un cattivo presentimento di Jo all’inizio del film, per poi dilatarsi e diventare sempre più tangibile in un climax di tensione crescente che culmina nella balenante risoluzione positiva, tra le più frettolose della carriera del grande regista. Dopo l’orrore vissuto dalla famiglia in pochissime inquadrature i tre tornano sorridenti in società, quasi dimentichi dei terribili eventi dei quali sono appena stati vittime. Strano? Forse. Ma possiamo azzardare che anche questa chiusa fulminea abbia un senso ben preciso: quello di accordarsi a quell’unico sospiro di sollievo che separa la paura dalla serenità, il brutto sogno dal risveglio, la tragedia dalla commedia.