#Venezia79: Love Life, la recensione del film di Kôji Fukada

Love Life recensione

La vita di Taeko (Fumino Kimura) scorre all’insegna della normalità, accanto al marito Jiro (Kento Nagayama) e al figlio di sei anni Keita (Tetta Shimada). Le sue tranquille giornate sono racchiuse tra le mura spoglie della loro casa, essa stessa connotata dalla semplicità e riempita dalla gioiosa presenza del bambino. Ma quella stessa casa si tramuta in vuoto contenitore di ricordi quando un tragico incidente porta via Keita dalla vita dei due genitori.

Film del regista giapponese Kôji Fukada e in Concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Love Life (trailer) è una storia sulla perdita e sulla difficoltà di elaborare un lutto. Ma soprattutto è una storia di solitudine, sulla lontananza che interviene in una coppia quando ciascuno è chiamato ad affrontare la propria sofferenza. Taeko e Jiro sono contraddistinti fin dall’inizio del film da una certa distanza, in un confine che pian piano si allarga sempre di più. Se in una delle prime scene questo loro essere su due piani è testimoniato dal figlio – che vuole giocare solo con la madre – successivamente capiamo come altre dinamiche si nascondano sotto la coppia. Si tratta dei genitori di Jiro, ed in particolare il padre, che non ha accettato Taeko come nuora in quanto precedentemente già sposata. Il piccolo Keita, infatti, è figlio di questa precedente relazione della donna. Gli sforzi di Jiro nell’essere un buon padre per lui si scontrano quindi con la sua scomparsa, che d’altra parte getta Taeko in un profondo stato di incomunicabilità.

Sia la coppia di sposi che quella composta dai suoceri affronta il lutto in modo asettico, affidando il dolore al silenzio e al distacco, così da rendere la comunicazione all’interno della famiglia sempre più rarefatta. Lo stesso appartamento dei due protagonisti diviene metafora di questa situazione, nonché simulacro di una presenza a cui la giovane madre non vuole dire addio. È l’arrivo improvviso del padre biologico di Keita a cambiare drasticamente la situazione: muto, straniero (è coreano), vestito con abiti colorati che stonano tra gli atoni completi degli altri personaggi, Park (Atom Sunada) esprime in modo drammaticamente esplicito il proprio dolore, presentandosi al funerale del figlio e aggredendo la sua ex moglie. È così che la donna “sblocca” i propri sentimenti, abbandonandosi per la prima volta al pianto.

Da questo momento in avanti Love Life disegna percorsi differenti per la coppia dei due protagonisti, come se l’evento tragico li abbia messi di fronte ad un bivio fatto di disgregazione. Da una parte Taeko, ancora legata al precedente compagno, sente il bisogno di aiutarlo nella sua disabilità, cercando al contempo un appoggio per elaborare il comune lutto del figlio. Dall’altra Jiro, messo in difficoltà sulla propria posizione nella perdita di un bambino che non è suo, si trova incapace di rivelare alla moglie la verità sulla donna con cui era stato fidanzato. In questo dramma dell’allontanamento, incapaci ormai di parlare e di guardarsi negli occhi, i due sposi troveranno letteralmente ciascuno la propria strada nell’affrontare il momento di dolore.

Kôji Fukada realizza un’opera sicuramente raffinata ed elegante, che con estrema delicatezza si poggia su temi complessi come la perdita di un figlio, la fiducia e l’importanza della comunicazione. Ma è l’amore il centro di Love Life, l’amore in tutte le sue forme. Un amore, come dice l’omonima canzone a cui la storia del film si ispira, che prescinde i legami tra le persone e i personaggi così come le connessioni tra presente e passato.

È altrettanto vero, però, che la visione di un film come Love Life è profondamente inficiata dalla distanza culturale che ci separa dalla cultura giapponese, ancor più incisiva di quella tra i protagonisti della storia. Per questo motivo per larghe parti è forse difficile empatizzare con i personaggi e i loro sentimenti, raramente espressi a parole (se non quasi mai) né dalla loro espressività. È piuttosto il silenzio a svolgere la principale forma di comunicazione. Un silenzio che richiede di conseguenza un tipo di visione diverso da quello da cui probabilmente siamo abituati, e che allo stesso tempo rende Love Life un’opera non facilmente apprezzabile per tutti.

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