Amore e morte. Forse le uniche certezze delle nostre vite. Non esiste animale che possa separarsi da questi due poli viscerali. L’Uomo, e la sua umanità, non fa eccezione. Ma per un essere inorganico si può dire lo stesso? Nell’era dei simulacri, delle realtà virtuali, degli avatar e delle memoji, nell’era in cui l’Uomo cerca di elevarsi a Dio attraverso processi di ingegneria identitaria, esistono eccezioni? In vista dell’uscita della seconda stagione di Love Death & Robots (trailer), cerchiamo di riflettere su cosa sia l’Humanitas, che dai tempi di Cicerone ci differenzia dagli animali.
La serie di Tim Miller presenta spunti molto interessanti su cosa sia l’essere umano. Prima di affrontare il discorso è bene definire cosa sia l’Humanitas. Interessante è la tripartizione del professore Marco Revelli che individua: l’umano ha una matrice classica, di stampo ciceroniano, che consiste in una sorta di filantropia, di un atteggiamento mentale e culturale che ci distingue dagli animali e che comporta un rispetto per l’uomo simile a sé; l’inumanità corrisponderebbe ad una caduta dello sguardo, dell’udito e del pensiero, alla possibilità che un uomo non riconosca un altro come tale; la postumanità invece è un’Humanitas moderna ed ibrida, che vede nell’uomo la nuova missione di «superare la pretesa umanistica dell’uomo come universo isolato, non solo come centro epistemologico ed etico, bensì come soggetto autoriferito e totalmente impermeabile alla contaminazione esterna».
In Love, Death & Robots a quale dei tre stadi ci troviamo di fronte? La risposta è complessa. Innanzitutto si possono distinguere gli esseri umani dai robot. La questione è ontologica. La vita vegetativa dei due ha connotazioni diverse. Per l’Uomo l’amore e la morte sono qualcosa di definitivo, per i robot no. Eppure la serie sembra non essere concorde. Prendiamo Sonnie’s Edge. La vita relazionale della protagonista sembra essere scissa dalla vita vegetativa, ora ibridata tecnologicamente. E cosa dire di Zima? Per lui il discorso è inverso. Sonnie allora non è umana e Zima lo è?
L’umanità non è una questione ontologica, è un atteggiamento. Sonnie è profondamente umana anche quando è ibrida. Si nutre di paura per la morte e di amore per la vita. Allo stesso modo Zima ha vissuto in cerca di sapienza, della ricerca dell’arte pura, del ritmo della natura. La propria parabola umana non poteva che finire con la morte, l’opera d’arte per eccellenza. Piuttosto che umanità possiamo parlare di postumanità? Forse sì. L’essere umano, nel senso tradizionale del termine, non è di certo Zima. La domanda da porsi è se ha senso credere che tra umanità e postumanità possa esserci una cesura, un punto di frattura incolmabile.
Prendiamo in considerazione altri esempi. In Aquila Rift il protagonista è umano, ma intrappolato in una realtà virtuale. Questo lo rende postumano? È l’ombra di se stesso? Difficile crederlo. Egli è un sé diverso, che vive in una stratificazione temporale che è fragile, come gli impulsi di quella ragnatela neurale in cui il corpo reale è immerso. Lo stesso si potrebbe dire della ragazza di The Witness. Cosa dire invece della femminile mutaforme di Good Hunting? Un cyborg femminista che ostenta una postumanità connessa intimamente ai sentimenti umani più profondi: paura, amore, morte, vendetta.
La grande rivoluzione culturale e identitaria promossa da Love, Death & Robots è proprio questa: l’abolizione della barriera tra umano e postumano. D’altronde è un tema costante su Netflix. Gli umani non sono robot, i robot non sono umani. Se la parola robot significa servo, allora forse anche l’Humanitas ciceroniana è diventata schiava di una prassi che ridiscute la propria esistenza.
La serie mette in crisi l’ontologia dell’Uomo: il ruolo della fragilità, della memoria, del tempo, del essere e dell’esserci. Love, Death & Robots è una serie ben riuscita proprio perché va oltre ogni retorica e ogni dietrologia, ostentando una realtà tanto cruda quanto incisiva: umani e robot sono divenuti la medesima entità. Non ha più senso di parlare di sentimenti, di strutture esistenziali o di peculiarità filosofiche.
Non esistono più singoli di vita vegetativa e relazionale, possiamo frammentarci da un punto di vista biologico e identitario. Possiamo morire e rinascere come in videogioco, possiamo frammentare noi stessi, possiamo sfidare i limiti della natura senza preoccuparci delle conseguenze. Sembra qualcosa di dispotico? Niente affatto, è la nostra quotidianità. Sblocchiamo l’Iphone e ci ritroviamo davanti alla trasposizione della nostra realtà digitale. Su quel dispositivo c’è tutto: l’identità sociale, dati sensibili, surrogati corporei. E sull’Iphone c’è anche Siri, a cui chiedere che tempo fa oggi o se ci vuole bene, come fosse il nostro compagno di scrivania.
Love, Death & Robots non è Black Mirror. Agisce per metafore profonde che non vogliono presentarci scenari ma essenze. Sarà interessante capire come la seconda stagione sceglierà di declinare questo aspetto. Dobbiamo aspettarci una convergenza estrema, ai limiti della coincidenza. oppure un cambio di direzione? Possiamo interpretare gli immaginari promossi come sintomatici di una vera e propria nuova umanità esistenziale? Possiamo solo aspettare e lasciarci sorprendere, ancora, da cosa questa straordinaria serie è capace di suggerirci.