Può risultare faticoso fidarsi di un western senza sputacchi di cacciatori di taglie e di bifolchi d’Arizona, o con pallidi gringos e cavalieri muti che si privano di un Toscano tra i denti. Può risultare faticoso fidarsi di sguardi compressi in formati stretti là dove il genere di riferimento è essenzialmente legato ad una wilderness da restituire allo spettatore nella forma più estesa («See it in glorious 70mm»). È vero, è faticoso, sembra persino legittimo, ma non per questo è giusto. Perché se nell’equazione della sfiducia ci fosse come risultante il gusto, si sbufferebbe facilmente di fronte a certi capolavori di Ford o Anthony Mann, padri del wild west in pellicola. In più, accettando radicalmente il dubbio, si rischia di scadere nell’ottusità integralista precludendosi perciò esperienze nuove di frontiera, di cui Los Colonos (trailer) appare fervido interprete. Ça va sans dire, il regista Felipe Galvez Haberle potrebbe al massimo lucidare la pipa di Ford e lo sperone (nudo) di Mann, ma ciò non significa che l’esordio del cineasta cileno, presentato a Cannes lo scorso anno, non riesca ad aprirsi un varco originale nella contemporaneità cinematografica.
Terra del Fuoco, Cile, 1901: Don Josè Menendez (Alfredo Castro), ricco possidente, incarica il tenente britannico MacLennan (Mark Stanley) di trovare territori sicuri al riparo dagli indios per i suoi greggi di pecore, spingendosi fino all’Atlantico. MacLennan si servirà di Segundo (Camillio Arancibia), abile tiratore cileno soprannominato “il meticcio”, e del mercenario statunitense Bill (Benjamin Westfall), in un’azione di pulizia etnica mascherata da semplice operazione di routine.
Innanzitutto, il passato. Il cinema non è solo archeologia di immagini ma anche di suoni e quando un western si apre con una partitura sonora d’ambiente tra vento, pecore, terra scavata, catene e reti di metallo tirate non ci si può non concedere un “amarcord” leoniano-morriconiano. E ancora, quando un tenente bianco uccide cinicamente un lavoratore bianco in un sistema gerarchico di razze ed etnie come quello del vecchio ovest, immediatamente si prende coscienza della più totale indeterminatezza di bene e male, della spietatezza infame della frontiera, proprio come nei film di Leone. Il western è sempre stato territorio d’autocoscienza, di inquietudini morali, metissage di istanze sociopolitiche e di pura estetica cinematografica, condensa di feticismo iconografico ed indagine del proprio passato. Scegliere steppe, cavalli e Winchester come esistenti di opere prime può quindi rivelarsi oltremodo ostico, anche perché il western sembra configurarsi spesso nella carriera di un regista come conferma e affermazione della propria autorialità.
Ma aldilà dei ritorni al passato, delle nostalgie cinefile, di paragoni certamente inutili e speculazioni precoci, Los Colonos riesce a fissare una sua stabile identità perché non ha la presunzione arrogante dell’opera prima, ma la lucidità e la compattezza di chi è figlio delle storie che racconta. Galvez dialoga con un passato dimenticato, alieno dalle grandi narrazioni in cui i coloni abitano l’olimpo dei grandi antagonisti della Storia. Detronizza il padrone bianco dallo statuto mitico tipico delle grandi narrazioni western e lo umanizza sino ai parossismi più abietti o patetici. Il tenente MacLennan è solo una pedina (a servizio per altro non di un padrone bianco, ma di un aristocratico cileno), incapace di afferrare una propria individualità perché ostaggio dei suoi superiori e del suo machismo militare: il grado di tenente emana odori di falsità mitomani, il predatore diverrà preda egli stesso. Bill, il mercenario del Sud, aspira alla grandezza di Don Josè, ma come MacLennan altro non è che strumento rozzo ed arcaico di un potere più alto, un cane segugio destinato alla soppressione istantanea.
Ma, più degli altri, a farsi testimone dei regimi d’indeterminatezza morale è il giovane Segundo, meticcio di discendenza e di volontà: scelto perché abile col fucile, Segundo si renderà complice delle violenze perpetrate alla sua stessa gente in un altalenante limbo di azione e renitenza. L’odio che sfuma dal suo volto corrugato nei confronti di MacLennan e Bill, infatti, non sembra trovare un equivalente pratico all’altezza: in una bellissima scena di ambientazione funerea e lugubre, immerso in nebbie dense, Segundo avrà la possibilità di liberarsi dalle catene del servo, tuttavia rinunciandoci per timore. Los Colonos è una storia di limiti inesistenti, di frontiere devastate, di termini mai definiti e questa desolazione si riflette tanto negli spazi fisici, quanto in quelli spirituali.
Il film accoglie l’instabilità dell’uomo e la labilità dei suoi confini etici, là dove terre e vita sono organizzate per confini netti, fondendo la riflessione storica con il puro piacere dell’immagine, senza però mai eccedere. Galvez, infatti, proietta il nomadismo omicida dei tre in brulle distese di vuoto, tra le montagne innevate di sfondo e praterie diffuse sotto cieli cinerei, spingendo l’azione dei compañeros sino alle coste atlantiche, in ambientazioni da confini del mondo. La fotografia cupa, algida, violenta di Simone d’Arcangelo ammanta i luoghi di un decadentismo mitico, levigando l’illusione che tra le praterie del Sud America e le montagne della Patagonia si muovano spiriti invisibili di epoche antiche. Ed in effetti, come spiriti i tre protagonisti vagano, come angeli dell’apocalisse uccidono, come dannati obbediscono. Dai canonici campi totali del western a piani ravvicinati in macchina a mano, la regia di Galvez appare contenuta, essenziale ma non per questo elementare, studiata ma mai invasiva, capace di restituire quel grado di morbosità ed inquietudine che alimenta l’azione dei personaggi.
La Storia, in Los Colonos, appare come un compromesso, violenza e pace sono taciti accordi, ordini in miseri accampamenti e semplici strette di mano che cancellano anni di soprusi. Il film di Galvez non avrà l’aura del capolavoro né il bagliore dell’epifania, ma nella ruvidezza dell’esordio riescono a palesarsi vividamente la volontà indagatrice di un figlio del Cile, lo sguardo consapevole di un cineasta e la mano dell’autore intenzionato a levigare col tempo la sua materia.
Dal 7 marzo al cinema e dal 29 marzo su Mubi.