La storia de L’immensità, in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è quella di una fiaba. Una fiaba, dal regista Emanuele Crialese, che però si scontra con una realtà cinica, nel racconto di una famiglia italiana in cui la parte della madre Clara è affidata ad una meravigliosa Penelope Cruz. Lei che è madre di tre figli, un bambino e due bambine. O due bambini e una bambina. Perché se uno dei due protagonisti è la madre, l’altro è sua figlia (Luana Giuliani): Adriana dentro le mura di casa, che fuori si presenta come Andrea; Adriana fuori in superficie, Andrea dentro di sé. Una ragazza che non si sente donna, non si sente un essere femminile, e per questo afferma di provenire da un’altra galassia. Non c’è posto per lei nell’Italia degli anni ’70, sullo sfondo di una Roma in piena trasformazione urbana; la sua famiglia, a parte la madre, non appoggia Adriana, che anzi viene disprezzata e insultata dal padre e dal fratello, schernita come strana da tutti gli altri.
Ed è proprio l’unità familiare il perno centrale attorno cui ruota tutto il film. Fin dalle prime scene capiamo come intercorra un rapporto fiabesco e a tratti surreale tra i bambini e la madre, la quale risulta essere più a suo agio con loro che nel mondo dei grandi. Per questo Clara va incontro ad una sorta di ostracismo da parte degli adulti, tradita e picchiata dal marito, criticata dalle cognate e dalla suocera. Una donna forte che reclama la sua indipendenza emotiva, un personaggio che risulta fantastico nel vero senso della parola, a tratti come fosse uscito da un racconto per bambini. E non a caso questa sua estraneità è contraddistinta dal suo essere straniera, una straniera in un mondo che non le appartiene in senso duplice.
Questa strana famiglia è quindi l’anima de L’immensità, una famiglia che a tratti si rifà ad un immaginario da Peter Pan, a tratti assume i panni di un varietà musicale (con un omaggio ai miti della musica dell’epoca, su tutti Raffaella Carrà). A spezzare l’incanto di questo mondo di favole è il padre Felice (Vincenzo Amato), l’adulto della casa e in quanto tale antagonista della storia. La sua presenza di fatto annichilisce la spensieratezza di partenza: è burbero e scontroso, non ha presa sui figli, tradisce e picchia la moglie. È lui l’elemento estraneo del gruppo, il cui solo arrivo interrompe i balli e i canti spensierati dei bambini capeggiati dalla madre-capo tribù. Nel contesto genitoriale la giovane Adriana soffre a tutti gli effetti di un complesso di Edipo, prova una forte attrazione nei confronti della madre (di cui più volte sottolinea la bellezza) e la vorrebbe tutta per sé, strappandola/salvandola dal padre. Clara è l’unico personaggio con cui Adriana ha un vero legame, l’unico individuo con cui non percepisce un certo distacco.
La storia de L’immensità è tutta racchiusa in questi due personaggi, tanto “diversi” quanto moderni, personaggi spezzati dall’urto con la realtà esterna. Una metafora della società contemporanea incapace di abbracciare le persone che non sottostanno alle sue regole di conformità, il contatto con un mondo cinico che tira uno schiaffo ai sogni fanciulleschi.
La cosa che contraddistingue L’immensità, ancor più della sua trama, è il tono con cui è raccontata. Un tono che oscilla costantemente tra la schietta realtà che fa male e la volontà di fuggire da essa, di raggiungere una dimensione fantastica attraverso scene di evasione. E così Adriana diventa Adriano Celentano, Penelope Cruz indossa un caschetto biondo e in un attimo si trasforma nella Carrà, abbandonandosi al ritmo sfrenato di Rumore. Un rumore, quello del film di Crialese, che da un inno di libertà si trasforma nell’urto della realtà che manda in frantumi le illusioni dei suoi protagonisti.