Attraverso un percorso di suggestioni di cinema sperimentale offertoci dalla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, in occasione della cinquantanovesima edizione, Federico Rossin ci guida in un itinerario al di là della cortina di Berliniana memoria. Un salto oltre il muro, quel buio oltre la siepe inesplorabile per noi europei occidentali, cresciuti a pane e USA. Ma se la sovversione visiva era quantomeno ipotizzabile in uno scenario di agio borghese (per quanto riguarda i già citati Stati Uniti e i vari stati protetti da mamma America, tra i quali il più esemplificativo e riconoscibile si colloca nel Regno Unito), nell’ombra della restringente pressa sovietica ci si pone davanti ad un’operazione necessaria.
Polonia
Siamo nell’inizio degli anni ’70. Siamo in Polonia, più precisamente a Łódź, la “ridente” cittadina nella quale si erge la scuola di controtendenza cinematografica contraddistinta dalla curiosità anarchica di giovani di bell’aspetto dai capelli lunghi con la voglia di cambiare il modo di approcciare la settima arte. Salutiamo la narrativa, il montaggio classico, le tecniche comuni di lavorazione della pellicola. Addentriamoci nella tana del bianconiglio. Cancelliamo la nostra percezione quotidiana dell’audiovisivo e lasciamo spazio alle follie metodiche di questi folli alla ribalta. Musica jazz, asincronia di audio e video, giochi di fuori campo e fuori fuoco per spettatori che vorrebbero sapere e vedere di più. Il peso di una macchina da presa che viene palesato da un operatore che conta col fiatone i gradini delle scale. Obiezione vostro onore, il cinema sperimentale già lo conosciamo, non c’è nulla di diverso da Michael Snow e compagnia bella. E poi i mattoni polacchi da autore morto suicida, copie vendute due… Siamo nello stereotipo del cinefilo ricercato. Ed invece no. Sarà perché chi scrive rientra nella categoria? Forse. Ma la cosa affascinante che non ci stacca dallo schermo è la qualità di resa di tutto ciò. Colori sgargianti o bianco nero ipnotici realizzati grazie alle 35mm fornitegli da fondi statali. Nessun ignobile super 8. Nessun audio dalla dubbia provenienza.
Ma in tutto questo, il fatto più straordinario, è che il cinema di questi ragazzacci post sessantottini è che loro non conoscono il nostro aldiquà. Sperimentano senza copiare, destrutturano e ricompongono tutto senza influenze esterne a cui ispirarsi. Se il risultato è simile alle sperimentazioni occidentali è perché la risposta dello studio del mezzo va ricercata nel mezzo stesso, e quello, in qualunque paese ci si trovi, resta sempre lo stesso. Rossin lancia una provocazione, ci dice che forse dovrebbero mostrare questi film al posto di Ejzenstejn agli aspiranti registi per far comprendere davvero come funziona lo specifico cinematografico senza neppure dover passare attraverso a narrazioni propagandistiche. La politica qui pone le basi nell’anarchia sì, ma dell’immagine. Tante belle parole spese per ora, ma esattamente, che cosa sono questi film? Per poter comprendere al meglio prenderemo in esame tre dei cortometraggi più interessanti all’interno di questa rassegna.
Take Five (Zbigniew Rybczyski, 1972) per la durata di 4 minuti complessivi ci mostra una danza esotica/esoterica impossibile sulle note dell’omonimo brano che da nome al film, realizzata attraverso l’utilizzo della cosiddetta ripresa a passo uno, una stop-motion umana per intenderci. Probabilmente il più sensazionale per appeal visivo grazie ai colori al led sgargianti che si mescolano grazie alla sovrapposizione delle pellicole, uno shock appagante sia a livello superficiale, di puro godimento della bella immagine, che dal punto di vista intellettuale. Window (Ryszard Wasko, 1972), un’inquadratura fissa su una finestra, nota meta-metafora usata e riusata nella storia del cinema (Hitchcock il primo nome che ci viene in mente), che in questo caso ribalta però l’ovvietà; non spiamo fuori dalla nostra casa impossibilitati a reagire attivamente, ma le azioni interessanti si svolgono proprio all’interno e lo spettatore è impossibilitato a seguirle con la vista. Possiamo godere in quanto spettatori dei suoni delle stoviglie lavate e di una radio che cerca la frequenza giusta, mentre la vista ci porta fuori su un giardino vuoto dove al massimo passeggiano un paio di persone in lontananza ma, a conti fatti, non succede nulla. Quello che si crea è un affronto ironico a ciò che è stato, la ridistribuzione della gerarchia dei sensi impiegati dallo spettatore, l’audio può vincere sull’immagine. 1,2,3… Cinematographer’s Exercise (Paweł Kwiek, 1972) è forse il più impattante a livello concettuale. Siamo introdotti a questo film come se fosse il più classico dei classici documentari, interviste ed immagini di repertorio ci raccontano l’ideologia socialista in Polonia, la rivoluzione. Bastano però una manciata di secondi perché la rivoluzione vera avvenga all’interno dell’extradiegetico. I colori si sfasano, le immagini si ripetono, l’animazione entra prorompente nella camera ed il messaggio tutto a un tratto non ci interessa più. Come dice McLuhan, il messaggio è il medium, ma il bello di tutto ciò è che McLuhan, con molta probabilità, il regista non sapeva nemmeno chi fosse. L’esperienza polacca si rivela sineddoche della normale tendenza evolutiva del mezzo, un’outsider di un panorama incredibilmente vasto che va a piazzarsi precisamente come una tessera in un mosaico perfetto.
Ungheria
Il secondo appuntamento delle “Lezioni di storia” è dedicato alle sperimentazioni nell’Ungheria degli anni ‘70, in particolare ai cineasti del Balázs Béla Stúdió, un laboratorio di cinema fondato nel 1958 da giovani registi e studenti di cinema grazie ai finanziamenti statali. Come nel caso polacco, è dunque lo Stato a fornire i mezzi produttivi agli studenti, eppure lo Stúdió gode di una libertà fondamentale, quella di non dover sottoporre le sceneggiature ed i materiali al varo della censura, che in un paese come l’Ungheria, durante gli anni della Guerra Fredda, era più che mai rigorosa.
Il nome dello Stúdió può far pensare al ben più noto Béla Tarr, ma Federico Rossin ci svela subito che il nome del laboratorio è legato invece a Béla Balázs, massimo teorico del cinema ungherese, e che in realtà Tarr non è altro che uno studente tra le giovani leve del laboratorio. Così il paese che diede i natali al più classico dei registi (Manó Kertész Kaminer, che tutti conosciamo come Michael Curtiz) è una delle sedi europee più innovative per il cinema sperimentale; i giovani registi si rifanno a correnti artistiche come Fluxus e il minimalismo, dimostrando una conoscenza dell’arte contemporanea molto più ampia rispetto ai polacchi, e instaurano un dialogo con altre arti e discipline, soprattutto con musica, fotografia, semiotica e antropologia.
Ma veniamo ai protagonisti di questa lezione e alle loro opere. Zoltán Jeney, autore del cortometraggio Round (1975), mostra la piazza Baross di Budapest scomposta come se fosse la tastiera di un pianoforte che qualcuno stava suonando. Così il brano dodecafonico che accompagna la vita della grande piazza si palesa ed entra visivamente in scena facendo corrispondere le note, e quindi i tasti, a rettangoli neri che oscurano parte dell’inquadratura. L’operazione di Jeney è divertente e provocatoria: mai la musica è entrata in maniera così sfacciata all’interno della pellicola cinematografica, mai l’immagine si è messa così al servizio del suono e dei suoi movimenti con tale facilità.
Mai d’altronde una storia come quella dell’allunaggio è stata raccontata come fa Gábor Bódy nel suo cortometraggio Aldrin üropera. Il regista, in un gioco che fonde musica operistica e semiotica, fa enunciare ad una giovane donna l’articolo di una rivista tedesca che documenta l’esperienza del “secondo arrivato” sulla Luna, ma non si tratta di una semplice lettura lirica dell’articolo: la donna infatti “canta le gesta” dell’astronauta dividendo il testo in sillabe e apportando una scansione metrica al racconto. Quello che ne risulta, come evidenzia anche Rossin, è una completa destrutturazione del linguaggio dovuto all’isolamento dei fonemi ed una conseguente perdita di significato (e quindi di senso) a favore del significante. In questo modo la vicenda dell’arrivo dell’uomo sulla Luna, già paradossale di per sé, ci appare ancora più assurda e improbabile: se non le si riesce a dare un significato sarà realmente accaduto?
I registi del Balázs Stúdió, liberi da qualsivoglia forma di condizionamento e di censura (a parte un film in cui delle donne impegnate in faccende domestiche recitano con disinvoltura estratti delle opere di Rosa Luxemburg), e provvisti di mezzi all’avanguardia, hanno modo di destrutturare il linguaggio filmico e di farlo interagire in maniera multidisciplinare con tutto ciò che ruota attorno al cinema senza mai realmente avere voce in capitolo nella realizzazione di un film: il senso viene meno ma resta una profonda consapevolezza del potenziale del mezzo filmico.
Romania
È un piccolo cineclub, in una altrettanto piccola città (Arad, Romania), fondato da un professore di estetica a dare gli albori ad una generazione di artisti poliedrici capaci di studiare ed utilizzare il mezzo cinematografico con una maestria olistica sintomo di spontanea versatilità. Kinema ikon è il miracolo di un gruppo di studenti, artisti, pittori, scrittori e via dicendo che, grazie ad una serie di fortunate coincidenze ed una grande curiosità, hanno portato nel cinema est europeo opere dal gusto occidentaleggiante. Incaricati dal governo di realizzare orripilanti documentari propagandistici, con la strategia «un pezzo, un culo» di Lulù Massa in La classe operaia va in paradiso, realizzano 62 di questi scempi e 62 sperimentazioni in libertà. Il contatto con l’estero raggiunto grazie alle proiezioni nelle varie ambasciate e la televisione, che grazie alla vicinanza all’Ungheria, prendeva segnali incensurati da Ceaușescu. Un ‘attenzione alla forma a discapito del contenuto ed un erotismo celato ma debordante. Racconti di corpi seminudi, dettagli di occhi, di pelle e di carne, tecniche miste o studi di meccanica, ingranaggi e movimenti metronomici: la genesi di immagini non pensate per un pubblico vasto, ma per la pura fanciullesca voglia di provare tutto. Da menzionare la presenza di donne all’interno della combriccola, non scontata soprattutto se prendiamo in esame i due altri esempi nazionali qui citati.
Ma quale miglior modo per capire di cosa si occupavano se non parlando di qualcuno dei film selezionati? Inizierei con Lightning (Ioan Ples, 1981) nel quale, attraverso l’incisione in controluce della pellicola, viene data vita ad una serie di fasci luminosi che si impossessando di persone, le uccidono e vagano per lo spazio in cerca di nuove vittime. L’effetto è la materializzazione di un fratello malvagio de La Linea di Cavandoli con la personalità di Ted Bundy. Stessa tecnica utilizzata anche in The Snake Charmer (Emanuel Tet, 1981), ma questa volta la narrazione è differente. Le linee luminose si privano di istinti omicidi per poter diventare serpenti domabili che ruotano attorno alle dita e alle persone per realizzare uno spettacolo pirotecnico ammaliante. Lasciamo ora in pace gli strani mostri al led per occuparci di Subliminal Exercise (Alexandru Pecican, 1979). Un montaggio accelerato e scellerato gira per le case e per le strade attratto dalle persone, dai corpi. Un ottovolante pornografico che gira con l’apparente impossibilità di trovare pace tra le gambe e gli occhi delle ragazze. Ma anche la giostra più adrenalinica deve finire, anche noi dobbiamo tornare alla calma e il regista non ci permette di cadere inaspettatamente, un rallentamento sul finale ci riporta alla realtà, ci riporta allo zenit. Concludiamo quindi questa splendida rassegna con un film del fondatore di kinema ikon: Fragmentarium (George Sabau, 1985-1990). Una dimostrazione di ritmo e di ingranaggi, il ritorno al Dada, ci tiene a ricordare che anche in questa corrente per fare cinema non è necessario ricorrere alla parte umana. Macchine ed ingranaggi si muovono a ritmo, la musica ripetitiva ci ipnotizza davanti alla potenza, ma, soprattutto, alla precisione dell’operato artificiale. Ma la maestria dell’autore risiede nella scala di grigio, letterale e metaforica. Letterale perché l’utilizzo del bianco e nero del 16mm ha una attrattiva visiva innegabile. Metaforica perché ad alternarsi col movimento frenetico vengono alternate immagini statiche di superfici fredde, così da enfatizzare il movimento mostrandoci i risultati della sua assenza e a non causare aritmie nei deboli di cuore.
Di Alessandro Viani e Claudia Teti