Splende il sole su Varsavia. Tre adolescenti dal Lussemburgo, Christina, Dean e Chadon Tina Marie, siedono a lato di un tavolo in un rigoglioso parco in centro città. Di fronte, Claude Marx, ebreo sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale e loro accompagnatore, con accanto una donna adulta e due giovani, attivisti per i diritti LGBTQ+ in Polonia. Un piano ravvicinato su Chadon mostra una lacrima rigarle la guancia, mentre sullo sfondo, fuori fuoco, i colori arcobaleno di una bandiera queer incorniciano e accolgono il suo volto. Chadon è immigrata in Lussemburgo da piccola per fuggire dalle persecuzioni in atto nella sua madrepatria, la Costa D’avorio. Quella mattina, a Varsavia, ha assistito per la prima volta a una manifestazione di estrema destra e a ferirla sono stati soprattutto gli sguardi di cui è divenuta oggetto, insistenti, invadenti. La donna polacca, commossa, si scusa per il comportamento dei suoi connazionali: lei e gli altri attivisti in Polonia combatteranno contro razzismo e xenofobia affinché, un giorno, anche Chadon potrà sentirsi al sicuro nel loro Paese.
Les témoins vivants (trailer) rappresenta il Lussemburgo nella XIV edizione del FrancoFilm Festival. Alla regia Pascal Piron e Karolina Markiewicz, docenti di scuola superiore che hanno posto l’uno di fronte all’altro, in un gioco di reciproci rimandi e rispecchiamenti, passato e presente, nonché fatti narrati e spettatori. Pur inserendosi a pieno titolo nel genere documentario, Les témoins vivants si serve con padronanza dei vari linguaggi formali ed estetici che hanno segnato la storia del cinema di finzione, rendendo la visione piuttosto immersiva e ribadendo l’essenzialità del medium audiovisivo. La struttura narrativa è ben scandita. Il confronto dei tre giovani con l’orrore dell’Olocausto non si esaurisce sul piano intellettuale e su quello emotivo, ma si esplica anche in una dimensione fisica: il viaggio sui binari che, partendo dal Lussemburgo, fa tappa in diversi luoghi della memoria, attraversando la Polonia e concludendosi a Berlino.
Seppur all’inizio fatichi a catturare lo spettatore, per la mancanza di una chiara presentazione del contesto messo in scena, il documentario si rende presto interessante. Frequenti e decisive sono le conversazioni tra i tre ragazzi, da un lato, e figure testimoni della storia, dall’altro. Quelle con Claude Marx avvengono per lo più nella cabina di un treno, su cui anche i pensieri e i ricordi viaggiano più velocemente. È, invece, ad Auschwitz e al Museo POLIN che si realizzano gli incontri con lo storico e giornalista Marian Turski, ebreo polacco sopravvissuto al genocidio. Nel rappresentare questi scambi e i momenti che li intervallano, le inquadrature sfruttano le superfici riflettenti e i varchi degli ambienti reali che raffigurano: i vetri che dal vagone danno sui paesaggi naturali costeggiati dal treno; le successioni di finestre lungo le pareti di vecchi edifici abbandonati. Soltanto il dialogo mediato con il passato e la lettura del presente alla luce di esso possono costruire uno sguardo quanto più consapevole e propositivo verso il futuro. In questo, i luoghi di Les témoins vivants giocano un ruolo fondamentale: fungono da custodi materiali e, pertanto durevoli, di lezioni dalla storia. Rendendo il ritmo della narrazione talvolta troppo altalenante, vengono ripresi isolati, senza alcuna presenza umana, con movimenti di macchina sinuosi su un sottofondo di musica enfatica.
Ma la contemplazione di Piron e Markiewicz raggiunge il suo picco proprio nei momenti dialogati, quando Turski, intento a parlare con i ragazzi, è mostrato in primissimo piano: se ne colgono i segni del tempo sulla pelle, l’emozione negli occhi. Secondo lui ai dieci comandamenti se ne dovrebbe aggiungere un undicesimo, «Non essere indifferenti»: così, forse, l’odio verso le ragazze come Chadon, quelle siriane immigrate in Occidente come Christina e i ragazzi omosessuali come Dean, verrebbe debellato, lasciando spazio alla libertà di ciascuno di autodeterminarsi.