Les Fantômes, la recensione del film di Jonathan Millet

Film Grand Huit, Arte France Cinéma, Hélicotronc e Niko Films producono la prima opera di finzione del regista documentarista francese Jonathan Millet, Les Fantômes (trailer). Presentato in anteprima alla settantasettesima edizione del Festival di Cannes e vincitore del premio Amore e Psiche nella trentesima edizione del MedFilm Festival. Il film è uscito nelle sale francesi il 3 luglio 2024.

Hamid (Adam Bessa) è un professore di letteratura siriano allontanato dalla propria casa, professione e famiglia perché non concorde con le nuove politiche del Paese, durante gli anni della guerra in Siria, scoppiata nel 2011. Dopo un periodo di torture e prigionia a Saydnaya, riesce a fuggire. È in questo periodo di prigionia che cambia la vita presente di Hamid. Siamo nel 2016 in Francia, a Strasburgo, l’ex insegnante conduce una vita sotto copertura. Entrato a far parte di un gruppo di spionaggio che ha il compito di scovare i criminali di guerra siriani. Inizia un’indagine attenta e silenziosa durante la quale le uniche voci che sentiamo sono quelle impresse nel registratore dal quale Hamid ascolta le testimonianze degli ex prigionieri, vittime dei soprusi del criminale Harfaz (Tawfiq Barhum), che Hamid è convinto di aver trovato. Sta solo cercando l’indizio giusto che gli dia la conferma che sia davvero lui.

Voci fuori campo, ricordi, persone senza nome, sono gli espedienti narrativi che creano i fantasmi del film. Hamid è un fantasma perché ha perso il suo passato e non crede nella possibilità di un futuro non dovendo e non potendo esistere per le istituzioni. Harfaz è il fantasma di un criminale che cerca di costruire una nuova vita e che continua a vivere solo nei ricordi fisico-sensoriali delle vittime dei suoi soprusi durante gli anni della guerra.

Il film trae ispirazione dalla storia delle vere cellule segrete siriane. Durante i colloqui con i rifugiati, il regista Millet rimane colpito da un particolare comune a tutte le storie che ascoltava: nessuno tra gli ex prigionieri sarebbe stato in grado di riconoscere i propri aguzzini perché gli era impedito di guardarli in volto attraverso la vestizione di sacchi che andavano a ostacolare la vista. Nonostante la componente documentaristica da cui prende avvio il progetto filmico, realizzarlo come un film di finzione ha dato modo al regista di avvalersi di tecniche narrative che fossero funzionali all’immersione dello spettatore tra i dubbi, le incertezze e le emozioni del protagonista. Finalità alla quale concorre in maniera puntuale la recitazione sottile e fisica di Bessa, che emerge in maniera particolare nei primi piani, funzionali ad aprire uno squarcio nella mente del personaggio, all’interno del quale lo spettatore è invitato ed agevolato ad entrare ponendosi, allo stesso tempo, delle domande.

Chi è Hamid? È il suo vero nome? Come è arrivato a Strasburgo? Come è entrato in un gruppo si spionaggio? Anche se le risposte sono destinate a rimanere nell’ordine di un’ironia drammatica della quale non sembra necessario mettere al corrente lo spettatore, è tuttavia proprio questo punto strutturale drammaturgico che invita il pubblico a prendere parte alla storia personale di Hamid, a renderla interessante. Sono le domande sollecitate che ci allontanano dalla realtà per entrare a far parte di una sospensione che ci appare tangibile, concreta e, allo stesso tempo, inafferrabile.

È l’invisibile che va a costruire lo spazio del racconto che si evolve in spazio dell’immaginazione dello spettatore, che viene continuamente suggestionato tramite voci e descrizioni di torture subite. La violenza, infatti, non viene mai mostrata, come non vengono mai mostrati gli eventi traumatici della vita del protagonista. Essi prendono forma solo nell’ambito dell’immaginazione dello spettatore. In questa sospensione il film riesce a raccontare le tematiche del lutto, dell’esilio, dell’identità – perduta e sostituita – utilizzando i codici del genere dello spionaggio.

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