Come si comporterebbe un attore se gli venisse chiesto di interpretare Jean-Pierre Léaud? Quali tratti o espressioni caratteristiche andrebbe a riprendere nella propria performance? È con questo interrogativo che il regista Cyril Leuthy introduce il suo nuovo documentario Le cinéma de Jean-Pierre Léaud, presentato all’81° Festival del Cinema di Venezia in concorso nella sezione documentari di Venezia Classici.
Il proposito di quest’opera sul «migliore attore francese» (così come viene definito nel film stesso) non è di ripercorrere la vita e i punti chiave della carriera di Léaud, quanto piuttosto di indagare la sua indissolubile connessione con il cinema, considerato dall’attore non solo un mestiere ma anche una vera e propria ragione d’essere.
Non è facile parlare di un personaggio così noto ed influente nel mondo del cinema, per questo Leuthy si serve di alcuni momenti chiave nella vita di Léaud che sono diventati catalizzatori del suo forte successo. Il primo fra tutti è il trionfo con I 400 colpi al Festival di Cannes nel 1959, che diede ufficialmente inizio alla carriera di quel ragazzo appena quindicenne dallo sguardo vispo e già intrinsecamente maturo. Con questo meraviglioso film di François Truffaut si apre anche la storia del suo alter-ego Antoine Doinel, ruolo che Léaud riprenderà per altre quattro volte nel corso degli anni. Leuthy si concentra parecchio sull’indissolubilità per l’attore dal suo personaggio, lasciando intendere quanto, nonostante i tentativi di staccarsi dall’immagine dell’alter-ego, Léaud rimanga fortemente influenzato e connesso a Doinel. Inoltre, nella riflessione tra identità dell’attore e dei personaggi, Leuthy si serve di alcuni attori per rappresentare Léaud in diverse fasi della sua vita, incarnando le caratteristiche tipiche della sua tecnica recitativa; tuttavia, rimane un esperimento poco riuscito, soprattutto per via della mancata immedesimazione con gli interpreti, che aggiungono veramente poco alla visione del documentario.
La narrazione, che procede attraverso gli altri punti cardine della sua carriera, è arricchita da interessanti e, talvolta, toccanti interventi di personalità come Olivier Assayas, Aki Kaurismäki, Tsai Ming-Liang, Chantal Goya, inframezzati anche da celebri scene della sua filmografia e materiali d’archivio. Il ritratto che ne viene fuori è un commovente omaggio a una figura rivoluzionaria della storia del cinema che, alla veneranda età di 80 anni, continua ad affascinare per la naturalezza e la maestria nel muoversi davanti e dietro la macchina da presa. Ciò che colpisce nel corso della visione è anche l’attaccamento a François Truffaut, quella figura paterna e amica che non lo ha mai abbandonato, neanche dopo la morte del regista nel 1984, momento che ha segnato profondamente Léaud negli anni a seguire. «Se François è felice io sono felice» si lascia scappare, confondendosi, durante le riprese di Le lion est mort ce soir (2017) di Nobuhiro Suwa, che racconta questo aneddoto dal set. Un simpatico lapsus dovuto all’età, ma anche una conferma del legame tra due maestri che continua a rimanere vivo, nonostante il passare del tempo.
Le cinéma di Jean-Pierre Léaud è un’ottima proposta nell’ottica di una riscoperta di grandi figure del passato che sono state in grado di lasciare un segno indelebile nel corso delle loro carriere. Un documentario non esente da imperfezioni, ma che si eleva attraverso l’affetto del pubblico nei confronti di un attore straordinario, capace di ammaliare ancora per molto tempo con le sue espressioni e la sua versatilità diverse generazioni di cinefili.