#RomaFF19: L’art d’être heureux, la recensione del film di Stefan Liberski

L’Art d’être heureux recensione film di Stefan Liberski

Non è facile creare un personaggio iconico. Serve il contesto giusto, il volto adatto, il pubblico pronto. Stefan Liberski ci aveva provato con Il fascino indiscreto dell’amore, senza riuscirci a pieno, ma con L’art d’être heureux (trailer), presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2024, ce l’ha fatta. Il protagonista di questa commedia dell’assurdo merita l’occasione di divertire e commuovere più gente possibile.

Jean-Yves Machond (Benoît Poelvoorde), un artista in forte crisi creativa trasferitosi in Normandia, è una calamita. Attrae la macchina da presa su di sé. Si mette al centro di ogni scena. Conduce lo spettatore alla risata, sempre, in ogni modo. C’è lo slapstick e c’è il brillante, c’è il surreale e c’è il black humor. Tutto dentro le smorfie, i farfugliamenti, i gesti, gli sguardi di Machond. L’art d’être heureux è l’esempio massimo di film fatto per un personaggio.

Nella prima scena di L’art d’être heureux, Machond parla da solo, intervistandosi come se fosse ancora riconosciuto come il grande artista che è stato. Sembra arrogante, pieno di sé, serioso. Non appena lo vediamo in relazione con altri, però, le cose cambiano. Quella sicurezza si sgretola subito e si manifesta per quello che è: un’armatura, poco resistente. La sua carriera non merita molte interviste ormai e, soprattutto, la sua creatività è arida da tempo. Tuttavia, Machond si comporta come se non sapesse tutto ciò. La metafora del riccio (elemento ricorrente di L’art d’être heureux) è abbastanza evidente e scontata, ma comunque efficace: Machond si chiude mostrando solo i suoi aculei, le sue citazioni di scrittori famosi e i suoi concetti visionari. Le sue difese crollano sempre e, così, diventa ridicolo, divertente. Fino a un certo punto, però.

L’Art d’être heureux recensione film Stefan Liberski

Il protagonista di L’art d’être heureux, infatti, non è solo una macchietta al centro di tanti sketch. Machond viaggia, si sposta, prova a ricominciare. Si mette in gioco perché sa che c’è qualcosa che non va e piano piano ci fa i conti. È grazie all’amicizia con Bagnoule (Gustave Kervern) e Déborah (Marine Dandoy) che è costretto a capire come cambiare. Abbandona le sue convinzioni e parla a sé stesso (stavolta senza illusioni) per migliorare il suo rapporto col mondo. Sbaglia, perde, viene deriso, insultato, abbandonato. Machond ci prova, ma fallisce sempre.

Umorismo pirandelliano. Concetto inflazionato come pochi, ma il film di Liberski è proprio questo. L’art d’être heureux “fa ridere ma anche riflettere” non sui massimi sistemi, ma sulle fragilità di una persona. Liberski mette Machond in situazioni sempre più assurde e devastanti, senza premiarlo mai. Lo spinge al limite della sopportazione. E a ogni insuccesso, si ride. Fino a che, però, il film cambia tono. Perché uno scivola su una buccia di banana, ma poi si fa male. Machond prova a colmare il vuoto centro di sé, prova a essere felice, ma non ci riesce. E questo non fa tanto ridere.

È grazie a questo cambio di tono che il protagonista di questo film ha un carattere iconico. Machond è come Totò, Monsieur Hulot, Charlot perché Liberski gli fa fare questo passo. Lo mette al centro delle situazioni più strampalate, lo fa incontrare con i personaggi più assurdi, lo fa fallire nei modi più esilaranti. L’art d’être heureux ha un clima surreale, ma nasconde un’umanità più vera e concreta che mai. Machond è un uomo tanto quanto chi lo guarda.

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