The Guardian, nel Maggio del 2009, propose al suo pubblico un sondaggio che recitava esattamente: «Lars von Trier-genius or fraud?». Il 40% del pubblico affibbiò al regista danese l’appellativo di impostore. E’ chiaro che ci troviamo davanti ad uno dei registi più controversi del nostro tempo. Ad accrescere ancora di più la sua fama da “regista tormentato” è lo stesso von Trier, il quale si fa portatore di una costante autocostruzione della propria immagine. Grande fan di David Bowie che, a detta del regista, «ha creato un mito di sé stesso» [1], von Trier ha fuso la sua persona con il suo lavoro, facendo dichiaratamente ricorso al suo nome e alla messa in scena della propria immagine per promuovere i suoi film.
Si è reso protagonista di vari scandali che hanno contribuito a creare il personaggio tanto discusso che conosciamo. IndieWire lo ha definito «lo sfacciato principe dell’avanguardia europea» ponendo l’attenzione sugli svariati rischi che von Trier si è preso nel corso della sua carriera. Il regista danese in un’intervista (the Burden from Donald Duck) ha affermato quanto, nel cinema, sia importante provocare il pubblico, spingerlo oltre i suoi livelli di confort emotivo. Per la creazione di un suo personalissimo stile che, lo stesso von Trier, definisce un misto tra naturalismo e surrealismo, ha fatto tesoro di svariate ispirazioni: il neorealismo italiano, Tarkovskij e i grandi autori della letteratura come Mann, Tolstoj e Proust. Nel 1983, infatti, ha paragonato il suo cinema ad «un supermercato dove prendi il tuo carrello e raccogli cose» [2], definendo il suo primo lungometraggio (l’Elemento del crimine, 1984) come «un figlio bastardo nato dall’accoppiamento di un film americano e un film tedesco»[3].
Lars von Trier nasce a Copenaghen il 30 Aprile 1956 da genitori comunisti che, fin dalla tenera età, lo hanno lasciato libero di autodeterminarsi. Il regista, infatti, parlando della propria infanzia, si è spesso dipinto come un bambino in un mondo senza confini e, l’ampia possibilità che ha avuto di poter strutturare autonomamente la propria identità, lo ha portato a vivere quegli anni in un persistente stato di ansia. Oggi non fa mistero delle fobie, spesso invalidanti per il suo lavoro, che lo perseguitano. La psicoanalisi che lo accompagna da tutta la vita è un elemento fondante del suo cinema. Il trauma, nei suoi film, non è solo un inevitabile soggetto, ma anche lo scopo primario del film stesso, necessario per provocare angoscia emotiva ed etica nel pubblico. I personaggi che costruisce altro non sono che autoritratti. Von Trier proietta sé stesso anche nelle protagoniste femminili; il genere, per lui, è solo una proiezione metaforica all’interno di un gioco di ruolo. Le figure che troviamo, a cui ci affezioniamo, seguono ideali fallimentari, sono vittime della loro stessa logica e spesso diventano martiri per seguire le proprie convinzioni.
Lars von Trier si fa portabandiera del cinema nordico. Seguendo le orme di Dreyer e Bergman, ha preso l’immaginario scandinavo (austerità luterana, paesaggi desolati) e lo ha proiettato altrove, come possiamo notare in Le onde del destino. Ambientato nelle isole Skye, in Scozia, il film segue le vicende di Bess, un’anima buona che si scontra con la rigidità di una austera comunità religiosa. Come accade spesso nei film di Dreyer, in Le onde del destino von Trier non attacca Dio, ma l’istituzione religiosa. Il film vuole restituire un’idea emotiva ed estetica di trascendenza, e lo stesso titolo può alludere alla struttura della pellicola: la scrittura impercorribile e la camera a mano oscillante, sembrano rappresentare un modo per stare al passo con le “onde”, ovvero con i sussulti emotivi dei personaggi. Le onde del destino si muove alla ricerca della spontaneità e dell’immediatezza, restituendoci una protagonista definita, sinceramente caratterizzata, che di tanto in tanto lancia fugaci sguardi in camera diretti allo spettatore.
Le riprese de Le onde del destino hanno anticipato la nascita del Dogma 95. Pubblicato il 13 Marzo 1995, il Dogma è un manifesto concepito da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg per combattere «il cinema cosmetizzato fino alla morte» (come recita il testo). Il manifesto prevede una serie di regole (definite Voto di Castità) che richiamano lo scopo di tornare ad un cinema che sia vero, un cinema che non deve nascondersi dietro la soffocante spettacolarità. La regola numero tre recita: “la macchina da presa deve essere a mano. Sono concessi tutti i movimenti che si possono ottenere a mano”. Uno dei tratti riconoscibili del cinema di von Trier è appunto l’uso della camera a mano. In un film come Idioti (1998) predilige la videocamera alla classica cinepresa, dimostrando che la prima può portare ad una riproduzione più diretta del reale e rappresentare con estrema naturalezza lo svolgersi della vita. Dancer in The Dark (2000) non segue alla lettera le regole del Dogma 95, svelando così quella che è la vera natura del manifesto: non vuole avere un valore dogmatico, bensì funge da provocazione, da protesta contro un cinema diventato troppo superficiale e dipendente dalla tecnologia.
In Dancer in The Dark il regista convoglia il suo fascino per i musical di Gene Kelly incanalandolo in quello che è un musical anti hollywoodiano. Blocchi ineleganti, tagli impacciati, inquadrature sgrammaticate e recitazione grottesca rafforzano la narrazione cruda; lo spettatore, scosso dal contrasto tra realtà e mondo visionario della musica, trova sollievo solo in quest’ultima, come la stessa protagonista. Gran parte delle scene del film sono state totalmente improvvisate, ha affermato l’attrice protagonista Bjork, e questo mette in luce come Lars von Trier, grande amante del controllo, si sia concesso questo esperimento (spesso deliberatamente imperfetto) frutto del gioco simultaneo tra raggiungimento e perdita del controllo. Un grande lavoro di sceneggiatura possiamo trovarlo, invece, in Dogville (2003), che a detta del regista stesso «è scritto dannatamente bene»[4]. Ispirato all’ Opera da tre soldi di Brecht e con una voce narrante favolistica che fa sfacciatamente il verso al cinema americano degli anni ‘30/’40, Dogville è un film che potremo definire come una fusione di teatro, cinema e letteratura. Qui Von Trier stravolge le regole del Dogma 95, andando oltre il realismo tanto ostentato nel manifesto, restituendoci una scenografia costituita da ambienti privi di fisicità e illuminati da luci artificiali.
La trilogia della depressione (composta da Antichrist, Melancholia e Nynphomaniac) viene prodotta dopo svariati anni di stallo dell’attività del regista. Von Trier ha spiazzato il pubblico con la realizzazione di questi tre film che altro non sono che la messa in scena del forte lavoro di autoanalisi che il regista ha compiuto su stesso. Debilitato da una forte depressione, Lars von Trier ha cominciato a girare Antichrist per avere un pretesto per alzarsi dal letto; la scelta di girare quasi tutto in penombra è probabilmente un espediente per farci toccare con mano l’interiorità buia dei personaggi, ma soprattutto del regista stesso. La depressione sarà il tema fondamentale in Melancholia, diventa “personaggio” del film, viene rappresentata come un pianeta che si abbatte sulla terra e distrugge l’esistenza. In Nynphomaniac von Trier compie la coraggiosa scelta di rendere il sesso poesia, oggetto di scoperta, di comunicazione con l’altro e viaggio verso la propria introspezione. Nel suo ultimo lungometraggio, La casa di Jack (recensione), troviamo un’estremizzazione della violenza (lo stesso regista lo ha definito il più violento tra i suoi film) equilibrata da una destabilizzante ironia. Da molti la pellicola è stata definita come un riassunto di tutta la carriera del regista, un film dove von Trier ha saputo condensare i tratti più caratteristici del suo cinema, un grande ritorno alle inquadrature sgrammaticate tipiche del Dogma 95.
Oggi si parla di una possibile uscita, nel 2022, della terza parte di The Kingdom (serie televisiva che ha visto la luce nel 1994) e inoltre, in un’intervista (Through the Black Forrest) , il regista ha affermato di volersi dedicare alla realizzazione di brevi cortometraggi da 10 minuti l’uno. Insomma, il contrastato regista danese ha intenzione di continuare ancora per molto a dividere il pubblico e a far parlare di sé e del suo cinema perturbante, con la sua voce sfacciatamente fuori dal coro e la sua ironia demistificante. Spesso si dice che Lars von Trier “o lo si ama o lo si odia”, ma anche se si propende per la seconda opzione, non si può ignorare il fatto che sia diventato oramai un’icona (tanto da essere citato in serie televisive come Boris) e abbia contribuito ad offrici una nuova e personalissima idea di cinema.
BIBLIOGRAFIA:
- Roberto Lasagna, Lars von Trier, Gremese Editore
- Linda Badley, Lars von Trier, Univ of Illinois Pr
[1] Björkman, Stig Trier on von Trier (2003)
[2] Schwander, Lars, “We need more intoxicants in Danish cinema”, Levende Billeder (Giugno 1983)
[3] Larsen, Jan Kornum “A conversation between Jan Kornum and Lars von Trier”, Kosmorama 167 (1984)
[4] Badley, Linda, Interview (2006)