Dalva (Zelda Samson) è una “giovane donna” di dodici anni, la cui peculiarità lampante è il rapporto che ella ha con il proprio corpo. Un legame di padronanza, esibizione ed ostentazione: la protagonista infatti si tinge i capelli di rosso da quando ha nove anni, mette con abilità trucco e rossetto, veste abiti intimi che uno sguardo adulto definirebbe troppo intimi per la sua giovane età. Il suo carattere è appassionato e vigoroso, deciso a non lasciarsi intimidire da alcun ostacolo. Ella stessa si crede molto più donna e adulta di quanto la sua età direbbe di lei. Ma questa identità ferrea sarà destinata a trasformarsi radicalmente, in seguito all’arresto del padre Jacques (Jean-Louis Coulloch), il quale, durante gli ultimi anni della loro convivenza, aveva educato la giovane figlia ad interiorizzare come amore i loro rapporti incestuosi. L’amore secondo Dalva (trailer) narra l’arco di trasformazione che la giovane protagonista dovrà compiere per depurarsi dalla convinzione che il rapporto a cui il padre l’aveva costretta fosse affetto, riconoscendolo dunque come stupro. A guidarla saranno una casa famiglia dove conoscerà la sua migliore amica e la madre, la cui figura genitoriale perduta – ma adesso ritrovata – permetterà alla protagonista di maturare un nuovo sguardo verso sé stessa e il mondo che la circonda.
Il film è il primo lungometraggio scritto e diretto da Emmanuelle Nicot, regista francese il cui nome ha cominciato ad essere riconosciuto grazie ai suoi due primi cortometraggi, RAE e À l’arraché, premiati in tutto il mondo. Pur durando soltanto 83 minuti e nonostante le possibili difficoltà legate ad un esordio, Nicot riesce a maturare un’opera efficace e convincente, che viene incontro all’attenzione del pubblico e che riesce soprattutto a trattare con successo la delicatezza dei temi affrontati. In particolare, l’esordiente regista è riuscita a manovrare con padronanza i momenti di intimità, emotività ed empatia che la storia narra, senza scadere in cliché troppo smaccati o appiattiti sul prevedibile. L’unica integrazione che forse si sarebbe potuto inserire nella struttura narrativa è una maggiore articolazione psicologica della protagonista, nella sua evoluzione e conseguente emancipazione; alla luce del suo vissuto, sarebbe stato necessario offrire più tappe narrative che mostrassero la complessità di tale atto di sradicamento delle proprie convinzioni.
In ogni caso, il film funziona e mantiene lo spessore di un’opera impegnata su un argomento così delicato. Un tema molto caro alla regista, che la vede coinvolta da vicino: «ci sono i temi dell’influenza e del controllo, che per me sono molto importanti. […] ho passato molto tempo in un centro di prima accoglienza per adolescenti: una cosa che mi ha colpito è che tutti i bambini e i ragazzi che erano lì per comprovati abusi di famiglia continuavano in ogni caso a stare dalla parte di quest’ultima, sostenendo che il sistema giudiziario sbagliasse […]. Due di questi ragazzini li ho seguiti per anni, arrivando a scoprire il loro viaggio dall’idea di separazione dalla famiglia a quella di vera e propria ‘liberazione’».
Una lode d’obbligo va alla giovane ed esordiente Zelda Samson, che personifica con fedeltà e intensità un personaggio così lontano dal vissuto di una normale adolescente. Un riconoscimento va anche ad Alexis Manenti nel ruolo di Jayden, l’assistente sociale che seguirà da più vicino la storia di Zelda, attore il cui talento era già emerso limpidamente ne I miserabili di Ladj Ly.
Il film è al cinema dall’11 Maggio.