In storiografia esistono diversi approcci possibili per riflettere sul passato e sulla contemporaneità. Raramente, però, ci si imbatte in analisi marcatamente discontinuiste, dal momento che l’idea di una storia culturale predilige in maggior misura una lettura diacronica dei fatti e dei processi. Tuttavia, in taluni casi può essere un bene isolare alcuni momenti di discontinuità, certamente mai atemporali, bensì ritenuti talmente paradigmatici da segnare un’intera congiuntura storica. Ed è questo il caso della nascita negli Stati Uniti nell’ottobre del 2017 del movimento femminista #MeToo, una sorta di contro-Hollywood che, dopo il trauma de l’affaire Weinstein, non è più disposta a tollerare altri casi di molestie e violenze sessuali subite da donne sul posto di lavoro, e che si professa intransigente circa le disparità contrattuali tra uomini e donne nell’industria dello spettacolo. Sebbene al momento in cui scrivo siano passati soltanto quattro anni dall’insediamento del #MeToo ad Hollywood, è impossibile non riflettere su quanto tale movimento abbia cambiato le strategie produttive e il linguaggio della comunicazione del cinema statunitense.
Tra le tante necessarie e doverose cause per promuovere il cambiamento in un’industria costitutivamente maschilista, le produttrici, attrici e maestranze donne del movimento hanno rivendicato l’importanza di affidare più progetti a registe, in virtù di una cadenza ritualistica che vedeva ogni anno nessuna donna comparire tra i candidati della cinquina finale per il premio Oscar per la miglior regia. E dopo la svolta storica del 2010 con il trionfo di Kathryn Bigelow, prima donna della storia ad aggiudicarsi tale premio, ad Hollywood nessuna regista meglio di Greta Gerwig ha rappresentato la nascita di una New Female Hollywood. Greta Gerwig, volto noto di un immaginario mumblecore, proprio nel 2017 si è imposta all’attenzione di tutti con il suo film d’esordio Lady Bird (qui il trailer).
Il film racconta l’ultimo anno di liceo di Christine “Lady Bird” McPherson (Saoirse Ronan), una studentessa impertinente di un istituto cattolico gestito da suore, il cui obiettivo è quello di riuscire a lasciare la sua città natale Sacramento per andare sulla East Coast e frequentare l’università a New York. Ma nel corso del suo viaggio dell’eroina Lady Bird dovrà affrontare numerose tappe, tra cui: il primo amore, la scelta delle amicizie da preservare, la precarietà di una famiglia in piena recessione economica, e soprattutto il confronto-scontro con sua madre Marion (Laurie Metcalf), tanto ipercritica quanto speculare e legata a lei.
Fatte le dovute premesse, adesso è il momento di discutere l’importanza di questo film non soltanto in relazione all’ascesa di una brillante artista che dirige e scrive da sola la sceneggiatura di Lady Bird, ma soprattutto in rapporto al valore estetico e narrativo di quest’opera, premiata con due Golden Globes e cinque nominations agli Oscars durante la stagione dei premi del 2018. A partire dalla citazione in esergo di Joan Didion, imprescindibile scrittrice americana di Sacramento, è chiaro che uno dei nuclei tematici di Lady Bird è proprio il suo scenario, la città di Sacramento tanto amata e odiata dalla nostra protagonista, nonché città in cui è nata e cresciuta la stessa Gerwig. Infatti, Lady Bird, la nostra eroina, vede Sacramento come il regno dell’immutabile, del lento e passivo trascorrere del tempo, e per questo motivo vorrebbe andare a New York, lì dove la vera cultura è viva e pulsante, secondo una riproposizione topica della faida tra East Coast e West Coast tanto cara a molto cinema americano, da Io & Annie (1977) di Woody Allen fino a Storia di un matrimonio (2019) di Noah Baumbach.
Di fatto però ciò che rende Lady Bird un caso di studio interessante non è il suo potenziale raffronto autobiografico con l’esperienza di vita della stessa Gerwig, anche lei trasferitasi a New York per gli studi universitari, ma il modo in cui si configura come un coming of age acuto, sofisticato e capace di ribaltare molte stereotipie del genere. Greta Gerwig ambienta Lady Bird nel 2002, in un’America devastata dall’11 settembre e impegnata nella Guerra al Terrore, le cui immagini vengono più volte mostrate sulla televisione che Lady Bird guarda in casa, e in un momento storico in cui i “giovani adulti” si relazionavano tra di loro senza cellulari né social media. Quest’epoca viene perfettamente restituita sul piano visuale grazie alla scelta della regista e del direttore della fotografia Sam Levy di una fotografia calda e desaturata, che punta sui colori pastello e che ripropone una certa grana tipica della carta Xeros in voga nei primi anni 2000. E proprio dal punto di vista estetico il film, fuggendo ogni virtuosismo, risulta nella sua semplicità un vero e proprio gioiello, ricco di quadri già tanto iconici da poter gareggiare con uno dei maestri del visually aesthetic come Wes Anderson.
Ma è indubbio che il principale pregio del film sia la scrittura del complicato quanto autentico rapporto madre-figlia. Greta Gerwig, infatti, riesce drammaturgicamente a raccontare due prospettive del racconto di formazione della sua eroina: attraverso ciò che Lady Bird fa e dice, e attraverso lo sguardo e le reazioni di Marion. Così facendo lo spettatore è in grado di identificarsi con lo spirito ribelle e temerario di Lady Bird, una sempre più convincente Saoirse Ronan, ma anche di comprendere gli sforzi, i sacrifici e talvolta il senso di disappunto della madre, una memorabile Laurie Metcalf, un’infermiera stacanovista che regge su di sé il peso della famiglia a seguito del licenziamento del marito (Tracy Letts) che combatte da anni con la depressione.
Lo script della Gerwig, infatti, gioca per contrasti, opposizioni e ripetizioni di beats di sceneggiatura, ovvero una serie di dialoghi e azioni compiuti da un personaggio che suscitano una reazione in un altro, conferendo così un’organicità e una fluidità testuale di grande impatto. La scrittura della Gerwig è rapida, agile, e rispetta e valorizza ogni personaggio. Si pensi a Julie (Beanie Feldstein), la migliore amica di Lady Bird, e ai personaggi interpretati da Lucas Hedges e Timothée Chalamet. Il primo è un ragazzo ricco, di famiglia repubblicana e segretamente omosessuale, il secondo invece, un musicista pseudo anticonformista in lotta contro l’eccessivo regime di sorveglianza del governo americano.
Ogni incontro, ogni esperienza che l’eroina affronta costituisce una prova necessaria nel percorso di individuazione del Sé, un’occasione imprescindibile per distinguere il suo want dal suo need. Lady Bird, infatti, vuole essere popolare a scuola, e lasciarsi alle spalle Sacramento e gli interminabili litigi con la madre, ma in realtà ha bisogno di imparare a dare valore a ciò che la circonda, ad amare le sue radici, la sua storia, e di affermare Christine, chi lei è già e non chi pretende di essere. E in questo senso assume particolare importanza il momento in cui Christine, e forse anche lo spettatore, realizza che nella vita ci si accorge di amare qualcosa soltanto quando la si perde, e che prestare attenzione può essere una forma di amore. Un instant cult generazionale prodotto, tra gli altri, dalla A24, una casa di produzione e distribuzione che negli ultimi anni si è distinta per l’indubbia qualità e autorialità dei suoi progetti, Lady Bird è una delicata elegia sul diventare adulti, ma ancor di più è la confutazione dell’idea di un cinema indie di esclusiva prerogativa maschile. La rivoluzione è donna, e comincia da qui.