Le protagoniste dei balletti vanno sempre incontro a un destino tragico. Questa è la conclusione a cui la ballerina Elise (Marion Barbeau) arriva a circa metà di La vita è una danza (trailer) – pessima traduzione italiana del più centrato En Corps, che fa riferimento sia ai corpi dei ballerini sia al Corpo di ballo – ma potrebbe anche essere presa come valida descrizione dell’atteggiamento che il cinema ha sempre avuto nei confronti di questa categoria di performer. Da Scarpette rosse a Il cigno nero, infatti, questa disciplina è stata spesso rappresentata come metafora o di una pulsione totalizzante e autodistruttiva, o del sacrificio estremo che gli artisti sono costretti a compiere nel nome della perfezione. Va quindi reso merito a Cédric Klapisch, regista del film, di aver volutamente evitato questi terreni fin troppo esplorati e di aver filmato una celebrazione positiva e contagiosa del potere che la danza ha sui nostri corpi e sul nostro spirito.
ll film si apre con una bellissima sequenza, quasi interamente senza dialoghi, in cui Elise e le altre ballerine della sua compagnia mettono in scena il balletto La Bayadère di Ludwig Minkus. Come in un piccolo cortometraggio prima dell’inizio del film veniamo trascinati dietro le quinte, dove vige un’atmosfera di quieta professionalità e di routine lavorativa, interrotta solamente da una piccola fonte di tensione: poco prima di entrare in scena, Elise intravede il suo ragazzo mentre la tradisce con una sua collega. Visibilmente sotto stress, Elise sbaglia un atterraggio e si sloga la caviglia destra. Purtroppo, la prognosi non è incoraggiante, e l’infortunio rischia di costare alla ragazza ben due anni di pausa.
Come si desume dalla sinossi, la posta in gioco in En Corps è molto bassa, e a Klapisch per fortuna non interessa enfatizzare il già esile conflitto drammatico che dà motore al film, che come risultato ne guadagna in leggerezza e in autenticità. La sceneggiatura del film non abbandona mai lo sguardo di Elise, e la trasporta in mezzo a vari personaggi e situazioni che man mano la aiutano nel suo percorso di scoperta personale. Al centro del discorso c’è la necessità di sapersi reinventare, di abbracciare i propri difetti e la propria unicità, abbandonando l’idea di perfezione che tanto sottende al mondo del balletto classico; Elise infatti troverà nella danza contemporanea la chiave per superare il suo piccolo trauma, trovando così la spontaneità e la freschezza che cercava, imparando a lasciarsi andare ai suoi impulsi e ad esprimere tutta la sua corporeità.
Sono temi a stento originali, ma complice la sincera interpretazione di Marion Barbeau (che esegue tutti i numeri di danza all’interno del film) e il tocco delicato di Klapisch, l’emozione non suona quasi mai fasulla, neanche quando nel climax del film si accumulano riconciliazioni e chiose narrative un po’ troppo ordinate e irrealistiche. Specialmente il riavvicinamento con un padre benintenzionato ma un po’ assente – che per gran parte del film commenta i successi delle figlie con un titubante “Formidable” – è gestito un po’ frettolosamente, con una redenzione prevedibile e precipitosa sul finale, in coda a una performance trascinante di Elise sul palco che lo porta a rivedere il suo atteggiamento distaccato. In compenso la riappacificazione viene filmata a distanza, con dialoghi inaudibili, una musica delicata e un semplice abbraccio, e improvvisamente quella che poteva essere la scena più inautentica del film ottiene (perlopiù) l’effetto desiderato.
Tutto a posto quindi? Non proprio; purtroppo Klapisch sente il bisogno di intermezzare questo sincero racconto di formazione con piccole accentuazioni comiche che strizzano l’occhio allo spettatore in maniera un po’ facile; un hard cut fra una coppia che litiga e un campo lungo di un camper che cigola ritmicamente per farci intuire la loro riconciliazione è l’esempio più eclatante di questi siparietti – per fortuna non tutti così ovvi, e sparsi con parsimonia nel corso delle due ore di visione.
Il film poi ha la tendenza di incorporare il “messaggio” in scrittura capitale all’interno del testo; il che risulta doppiamente un peccato dopo quella bella introduzione che, solamente con la forza delle immagini, delineava benissimo quel rapporto fra l’intimità dei corpi e la nostra soggettività che il resto del film cerca scrupolosamente di illustrare a parole. Ad un certo punto l’impressione è che ogni personaggio del film voglia dare una lezione di vita ad Elise, e alcune coincidenze della trama risultano fin troppo costruite ad arte per alimentare il percorso di crescita della protagonista (possibile che la compagnia di danza moderna che Elise ha osservato con ammirazione a inizio film capiti esattamente nello stesso albergo dove lei lavora?).
Fortunatamente nessuno di questi difetti rende il film meno godibile, e fra i tanti racconti giovanili di affermazione di sé che popolano il cinema contemporaneo En Corps spicca almeno per onestà di intenti e per lo sfatamento di un mito: finalmente abbiamo capito che possiamo mostrare al cinema dei ballerini che si divertono. Ora toccherebbe solo fare lo stesso con i musicisti.
La vita è una danza è al cinema dal 6 ottobre.