Come cambiano i concetti di giusto e di sbagliato quando un gruppo di persone si ritrova isolato dal mondo in pericolo di vita? Se lo sono chiesto molti autori, tra cui Juan Antonio Bayona: regista, co-sceneggiatore e co-produttore de La società della neve (trailer), presentato a Venezia 2023, disponibile su Netflix e candidato per la Spagna agli Oscar 2024 come miglior film straniero.
La storia, adattata dall’omonimo libro di Pablo Vierci, è quella realmente accaduta del disastro aereo delle Ande del 1972, che vide protagonista la squadra di rugby degli Old Christians che era a bordo. L’aeroplano cadde vittima delle turbolenze durante il tentativo di superare la catena montuosa per arrivare in Cile. I sopravvissuti all’impatto si videro costretti, per rimanere in vita, a mangiare i corpi dei compagni morti.
Cosa ha spinto J. A. Bayona a scegliere un soggetto, trattato già nel 1976 con Supervivientes de los Andes e nel 1993 con Alive? La risposta la fornisce lui stesso nel Behind the scenes: affermando che in passato non si era mai dato spazio al punto di vista di chi, purtroppo, nel lontano ‘72 non ce la fece. Decise quindi di rimediare. Inoltre La società della neve, a differenza dei precedenti film, ricerca un realismo della narrazione quasi documentaristico, reso possibile dai 60 milioni di dollari di budget.
I 60 milioni, però, sembrano serviti tutti per gli effetti speciali e troppo pochi sono andati al reparto sceneggiatura, perché, al netto di una resa visiva senza difetti, il film pecca di ritmo e di spessore. Il primo brevissimo atto (probabilmente voluto così dalla piattaforma streaming per cercare di acchiappare anche il pubblico con la soglia di attenzione abituata a Tiktok) impedisce di legare con i personaggi, che affrontano le peripezie in un secondo atto inutilmente lungo. Anche il terzo atto non manca di problemi, bensì di tensione. Dietro l’intenzione di raccontare i fatti per come sono andati, il film soccombe sotto il peso del realismo come l’aereo del volo 571 sotto quello della neve.
Immaginiamo quanto sia difficile dipingere come negativi dei personaggi realmente esistiti, utilizzando i nomi veri, senza che questi o le loro famiglie facciano causa. Ma l’assenza di difetti nei personaggi elimina il conflitto umano e rende poco interessante anche il più avvincente dei soggetti. Alive cercava di risolvere questo problema inventando il personaggio di un meccanico folle. La società della neve, volendosi attenere ai fatti, non inventa nulla, ma allo stesso tempo omette qualsiasi tipo di screzio o di cattivo sentimento di cui i sopravvissuti, anche con le migliori intenzioni di fare squadra, sono verosimilmente stati colpevoli in 71 giorni di prigionia al gelo. Rimane la lotta con la natura, ma sembra portata avanti da soggetti sovrumani, idealistici, senza difetti, con cui si può ben poco entrare in empatia. L’unica strada che rimane da battere, per dare spessore alla sceneggiatura, è il conflitto interiore. Ma il contrasto tra la fede più o meno cattolica dei protagonisti e il bisogno di mangiare la carne dei cadaveri dà vita solo a delle riflessioni dalla banalità sconcertante, che si tengono alla larga dall’essere originali, coraggiose o pungenti.
La regia, per la maggior parte del tempo, aderisce al contenuto della narrazione, toccando picchi di crudezza degni di Orphanage (2007), il primo film dello stesso Bayona (considerato tra i migliori horror degli ultimi 20 anni); in altri momenti, però, si distacca totalmente da ciò che è raccontato, con troppi movimenti di macchina troppo puliti, più simili a quelli di Jurassic World: Fallen Kingdom (2018), una delle più recenti regie di Bayona. Troppo pulita, per una storia così cruda, è anche la fotografia che insiste su un teal&orange totalmente fuori luogo, ma che va tanto di moda negli ultimi anni e non manca in nessun prodotto targato Netflix.
Oltre alla recitazione degli attori, tutti sorprendentemente esordienti, sono i campi lunghissimi a salvare il film, che concedono un respiro a contrasto con gli ambienti claustrofobici della fusoliera sotto la neve. Le montagne innevate che sovrastano i personaggi ricordano i quadri di Caspar David Friedrich, in cui si vedono uomini piccoli, di spalle, con i quali ci si può immedesimare, davanti all’immensità della natura, e aprono così facilmente la via alla riflessione etica nello spettatore: “Io cosa farei in quella stessa situazione?”. Nello specifico, il film rimanda immediatamente a Il Mare di ghiaccio (Das eismeer) del pittore, che rappresenta un naufragio realmente accaduto tra i mari del nord come allegoria della tracotanza umana.
Una storia vera, dal buonismo sottile, portata sullo schermo attraverso una messinscena realistica, ma forse un po’ banale, prodotta con tantissimi soldi: perfetta per vincere un Oscar. Dovrà solo fare a gara con il nostro Io Capitano, che a buonismo e banalità, sta messo davvero bene.