Perennemente in contatto, oggi, col fantasmatico universo dei big data siamo cowboys supertecnologici intimamente iperconnessi che percorrono coraggiosamente i deserti e le autostrade telematiche dell’Internet. Quelli che durante il novecento potevano essere osservati come germi fantasmagorici di un futuro quanto mai prossimo, volto a rendere sempre più palpabile e infinitesimale la distanza concreta tra biologia e tecnologia, a seguito del passaggio millenario questi germi sono diventati chiazze particellari di un quadro elettronicamente variegato in cui l’apparente divario tra corpo e macchina è stato colmato dall’ineffabile e prepotente volontà di curiosare e agire dove fisicamente non ci è concesso entrare. Il famigerato virtuale diventerà dunque, anzitutto, un macrodeserto in cui avventurarsi per riscoprire le tracce della nostra umana finitezza e, poi, un virtuosissimo terreno d’addestramento che aggiornerà l’umanissima coordinata della Identità con la soggettività tecnologicamente nuova dell’interazione.
Perennemente sottoposti alla ricezione di una quantità esorbitante di informazioni, provenienti non solo dal mondo fisico della passiva ordinary life quanto anche dall’ormai attivissimo mondo dell’ipertecnologia ramificata, diventiamo cyborgs desiderosi di closeness che aspirano ad un ritrovarsi comunitario e ad un camminare sempre più deciso e autorevole lungo le autostrade virtuali.
Siamo gli eroi dell’ordinario ripetersi che intraprenderanno un percorso di apprendimento entro i deserti dagli orizzonti mai fissati dei big data e che, lasciati informare dalle storie ed eventi del mondo, avranno la possibilità di rintracciare l’innata abilità del riadattarsi propria dell’eroico camaleonte. Proseguendo, il cinema sarà potentemente tra i luoghi eletti in cui di sicuro si apriranno spazi di riflessione a proposito del rapporto uomo-tecnologia e in cui, attraverso anche un costante dialogo con la contemporaneità, sarà possibile rintracciare la qualità archetipica del camaleonte propria dell’illustrissimo Eroe.
Non esiste un’unica formula con cui raccontare il viaggio di un Eroe mirabolante nello spirito. La sua qualità archetipico-camaleontica plasmerà il suo ammirevole corpo, rendendolo così facilmente malleabile e propenso ad assumere consistenze probabilmente anche impensabili. In questo modo si riconfigurerà anche l’apparente ortodossia favolistica protrattasi nel tempo del cavaliere “senza macchia e senza paura” che salva la conformistica principessa dalle grinfie del consuetissimo drago cattivo. L’Eroe sarà per forza di cose una figura pronta ad entrare nella leggenda e capace di attraversare le sabbie di tempo contesti e situazioni attraverso le qualità camaleontiche di colore e adattamento.
All’interno del cinema d’animazione Shrek (2001) di Vicky Jenson e Andrew Adamson, Rango (2011) di Gore Verbinski e Raya e l’ultimo drago (2021) di Carlos Lòpez Estrada e Don Hall acconsenteno al rimodellamento dell’archetipo Eroe riflettendo profondamente sulla qualità camaleontica dello stesso, aprendo le tre decadi del nuovo millennio riproponendo in parte tematiche ardentemente vive nel dibattito contemporaneo e celebrando la politica della diversità con storie di reinserimento nel mondo.
Sovvertendo la tradizionale formula del principe azzurro intento a raggiungere la fortezza del dragone e rompere l’orrendo incantesimo, Shrek è una margherita di stupefacente novità post-2000 che eleva sorprendentemente a protagonista il mostro solito della favola, offrendogli soprattutto la possibilità di realizzarsi sentimentalmente, e che rovescia il parco divertimenti di Disneyland provocando un inside-out da incubo – le creature delle favole più famose sono ingenue, deliranti, abusive, vendute per pochi spiccioli a soldati senza scrupoli e costrette all’esilio. Il film colora le drammaturgie dell’orco Shrek (Mike Myers), del “nobile destriero” Ciuchino (Eddie Murphy), dell’agilissima principessa Fiona (Cameron Diaz) e del perfido Lord Farquaad (John Lothgow) con evidentissime qualità volte a sconvolgere la old spectatorship e a fondarne una nuova e rinnovata.
Convogliando ora la nostra attenzione sul numero uno della puzza e del lercio, il nostro protagonista verde è fonte di un sorprendente sconvolgimento che testimonia anche l’intrinseca possibilità dell’Eroe di rimodellarsi “a piacimento” sulla base del testo filmico di riferimento – il protagonista è un orco – e dei contesti extrafilmici in cui il testo vive – Shrek segue la corrente di fine anni novanta e inizio duemila in cui i protagonisti sono giocattoli (Toy Story – Il mondo dei giocattoli, 1995, di John Lasseter), lama dalla dubbia reputazione (Le follie dell’imperatore, 2000, di Mark Dindal) e supereroi impegnati a crescere i figli (Gli incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi, 2004, di Brad Bird).
Shrek è un solitario che rifiuta inizialmente qualsiasi coinvolgimento in attività fuori dalla palude; accetta di salvare la principessa per Farquaad a patto che le creature delle favole siano nuovamente fatte sgombrare dalla sua orripilante casa (ciò, dunque, lo rende un mercenario disperato); non bacia la principessa e non uccide il drago. Shrek è un cavaliere “unico nel suo genere” che acquisisce, e qui forse l’attimo più poetico di tutto il film, un nome grazie all’incontro con Ciuchino – alla domanda “come ti chiami?” il protagonista si ferma un momento a pensare e risponde giusto per dire qualcosa. Grazie all’incontro col futuro migliore amico, l’orco protagonista entra nella SUA unica e inimitabile storia e, a quel punto, non può più tirarsi indietro dalla sua identità.
Il film di Vicky Jenson e Andrew Adamson è uno spettacolo politicamente e socialmente sovversivo che dissolve il plot tale ordinario della favola passata e che deforma volutamente i caratteri dell’Eroe consueto. Specchio “lurido” di quel passaggio millenario anche sofferto, Shrek sarà un’opera animata dallo spirito di rivalsa dei dimenticati, rientrante in una più larga corrente di aggiornamento dei miti e abbondante di uno humor insolitamente popolare. Il nostro orco preferito sarà dunque tra i nuovissimi eroi che adattano il proprio colore ad un millennio sconosciuto e che testimonierà oltretutto la necessità di “scendere” a livello delle classi più basse – siamo lontani dalle storie cinematografiche di principi caduti in disgrazia causa la loro ombra (La bella e la bestia, 1991 di Gary Trousdale e Kirk Wise) o di cuccioli destinati a scalare la rupe dei re (Il re leone, 1994, di Rob Minkoff e Roger Allers).
Se Shrek rifletteva esplicitamente sulla possibilità di essere mostri e allo stesso tempo eroi, Rango accende fino a farla diventare la propria punta di diamante la dinamica dell’essere eroi per una comunità minacciata da un futuro inarrestabile. Il film raccoglie la mitologica eredità della grande tradizione western e stravolge ironicamente la leggenda dello straniero senza nome di Sergio Leone prosciugandolo di ogni possibile coolness e carisma: Rango (Johnny Depp) è una piccola lucertola con manie di grandezza che si cuce addosso l’immagine falsa del pistolero solitario in una cittadina dimenticata del deserto del Mojave. Come il predecessore del 2001, anche Rango racconta un Nessuno che non può ritirarsi dalla sua storia una volta acquisito un nome ma, a differenza di Shrek, Rango esplicita proprio sulla sua pelle animale la qualità archetipico camaleontica propria del grande Eroe.
Il film di Verbinski è la dichiarata manifestazione dell’Eroe dai mille volti perennemente in bilico tra il recitare una parte di fronte ad un pubblico – Rango si autodichiara attore del suo piccolo teatro, prima, dentro il suo quotidiano contenitore di vetro e, poi, nell’extraordinaria cittadina sperduta di Polvere – e il credere egoisticamente alla maschera indossata per gran parte del tempo – egli si finge una persona che non è, giusto per avere una ragione di vita nel mondo. Il personaggio di Rango è il sostrato camaleontico della figura del cowboy che si è persa dopo il passaggio millenario e che ora necessita di ritrovare la sua identità ripercorrendo le tracce dell’antesignano Clint Eastwood. Esemplificativa a tal proposito è la scena del sogno con lo Spirito del West (Timothy Olyphant), modellato con le fattezze dello straniero senza nome di Sergio Leone, che cerca metalli armato di metal detector. Lo Spirito del West diventa traccia di un passato che deve essere ricordato ma non ossessivamente seguito – “Hai fatto tanta strada per cercare qualcosa che qui non c’è” – poiché la pena è l’imitazione pedissequa di un modello mai aggiornato.
Quest’ultima lezione di Rango è il coronamento animato di una tradizione che lascia in eredità un’immagine da rivoluzionare. Non a caso, a livello cinematografico e seriale, tra i nuovi cowboys della seconda decade del 2000, che dovranno re-imparare a camminare nel deserto extraordinario, ritroveremo Jake Lonergan (Daniel Craig) in Cowboys and Aliens (2011) di Jon Favreau, John Carter (Taylor Kitsch) nell’omonimo film (2012) diretto da Andrew Stanton, Rick Grimes (Andrew Lincoln) in The Walking Dead (dal 2010), Roy McBride (Brad Pitt) in Ad Astra (2019) di James Gray ecc. La fantascienza è uno dei casi che esplora anche il sostrato drammaturgico del cowboy su quel terreno d’addestramento che è il deserto. Non vogliamo certamente dire che Rango ha realizzato tutto questo, ma Rango rimane sicuramente tra gli esempi che meglio esplicitano, più in generale, la qualità camaleontica dell’Eroe – la sua capacità di viaggiare nel tempo e riadattarsi ai diversi contesti mediali (cinema, letteratura ecc.) – e, più in particolare, del cowboy.
In ultima analisi Raya e l’ultimo drago, come i suoi validissimi predecessori, rovescia ancora la consueta figura dell’Eroe abitata unicamente dalla brillante, possente e unica possibile mascolinità. Raya (Kelly Marie Tran) è una guerriera che intraprenderà un viaggio disperato per salvare il padre Benja, pietrificato dagli esseri incorporei Druun, e riunire così Kumandra. La limpida Drammaturgia del testo di Raya vorrà quest’ultima come Eroe alle prime armi, la cui visione diventerà sempre più aperta mano a mano che ella conoscerà gli amici fidati: ogni regno visitato corrisponde ad un amico “ritrovato” con cui intessere una solida partnership e a cui affidare addirittura le sorti del mondo.
Sarà proprio a partire dalla drammaturgia del suo testo che Raya lascia emergere una delle tracce ancestrali dell’Eroe, precedentemente toccata sia da Shrek che da Rango ma mai resa così vivida come nel proprio testo: l’Eroe qui muore e rinasce non attraverso le fasi di fallimento e recupero/redenzione – nei film del 2001 e del 2011 abbiamo la momentanea dipartita dell’Eroe e la successiva vittoria – quanto attraverso il riporre fede nel coraggio del prossimo e la vittoria comunitaria. Dunque, al di là degli evidenti richiami al contemporaneo – la donna non è la passiva principessa da salvare – Raya e l’ultimo drago sposta l’asticella dell’Eroe classico ritrovando l’incredibile senso del successo comunitario. Sorprendentemente, prima dell’epilogo, Raya non sarà più la protagonista indiscussa quanto la custode delle “chiavi” della pace che smetterà di agire (seppur momentaneamente).
Quella di Raya non è infatti la normale dipartita alla Shrek e alla Rango e neanche il consueto sacrificio dell’Eroe che rinuncia a sé per salvare gli altri. Proseguendo con la visione del film comprenderemo che le vite degli abitanti di Kumandra sono legate alla pietra dei draghi. Questo significa che la vita del singolo è indissolubilmente connessa al benessere comunitario (se cade una cade anche l’altra). Il “sacrificio” di Raya dovrà per forza di cose essere letto come il ritrovamento sereno di una beatitudine collettiva interrotta dai Druun che necessita evidentemente un atto comune di coraggio e fiducia.
Contestualizzando l’uscita dell’opera in questione e focalizzandoci ancora sul gesto coraggioso della protagonista, Raya e l’ultimo drago dimostra la qualità camaleontico-archetipica dell’Eroe. Uscito a marzo 2021 il film di Carlos Lòpez Estrada e Dan Hall si configura come un chiarissimo messaggio di speranza indirizzato a tutti. Viviamo una pandemia in cui closeness e condivisione in presenza lesinano profondamente e in cui il senso comunitario va frammentandosi in un puzzle difficile da risolvere. Di questi tempi non avremo bisogno di un solo Eroe leggendario, quanto di una riscoperta autentica della comunione tra la gente. Raya e l’ultimo drago lancia proprio questo appello: l’Eroe è colui che si realizzerà attraverso una riconciliazione e fiducia nel prossimo… ed oggi, più che mai, abbiamo bisogno di sentire questa qualità archetipica illuminante.
Shrek, Rango e Raya e l’ultimo drago lasceranno che nel Cinema d’animazione risalti la qualità archetipico camaleontica dell’Eroe, ovvero la sua innata capacità di colorarsi e adattarsi a tempi situazioni e contesti differenti, senza mai mutare il suo spirito coraggioso o comunque redentore. I film presi in analisi riscriveranno la figura e parabola dell’Eroe leggendario e aprono le tre decadi del 2000, testimoniando così un ribaltamento di rotta dalle storie già conosciute. Shrek sovverte la favola del principe azzurro che salva la principessa dalle grinfie del drago, ricordandoci che anche il mostro potrà vivere “felice e contento”. Rango è una riflessione giocosa sul sostrato drammaturgico del cowboy che deve potersi aggiornare al fine di generare altri validissimi figli. Raya e l’ultimo drago lascia emergere quell’atomo di desiderio comunitario insito in ogni Eroe, necessario per la vittoria di tutti. In conclusione, attraverso la disamina dei casi studio, ritroveremo che questi tre film potranno essere anche nostri stimolanti alleati. Il fine sarà quello di guardare sia dentro di noi che fuori, nel contemporaneo vivere.