L’idea di raccontare una storia a base di sesso e cucina nasce dalla volontà di realizzare un «film fisiologico», come lo ha definito il regista stesso. Il corpo umano, infatti, viene presentato come elemento centrale della propria esistenza: tutto è all’insegna del piacere e della soddisfazione del desiderio da parte dell’individuo. Questo è, di base, il fulcro centrale attorno al quale ruota La grande abbuffata, il film più iconico e provocatorio di Marco Ferreri. Come altri suoi lavori precedenti, la pellicola è stata prodotta grazie alla collaborazione tra Italia e Francia; scritta insieme allo sceneggiatore Rafael Azcona e al dialoghista Francis Blanche, essa è quasi del tutto ambientata all’interno di una villa parigina. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film venne ampiamente criticato a causa dei suoi contenuti controversi; nonostante ciò, riuscì ad aggiudicarsi il premio FIPRESCI (Fédération internationale de la presse cinématographique), venendo unanimemente rivalutato nel corso degli anni: ad oggi, esso è considerato come uno dei punti più alti della carriera di Ferreri, oltre che una perfetta rappresentazione della sua poetica.
La trama ruota attorno a quattro amici che decidono di ritirarsi in una villa nei dintorni di Parigi durante un weekend: il loro obiettivo è quello di dare libero sfogo alle proprie voglie erotiche e gastronomiche, fino a ribaltarne la concezione del piacere stesso in un senso di morte e disperazione. Tutti, in un modo o nell’altro, appartengono alla società borghese successiva al boom economico: Ugo (Ugo Tognazzi, che porta avanti la collaborazione con Ferreri iniziata dieci anni prima con Una storia moderna – L’ape regina), di professione cuoco; Michel (Michel Piccoli), produttore televisivo; Marcello (Marcello Mastroianni), pilota di linea erotomane; e Philippe (Philippe Noiret), giudice e proprietario della villa in questione. Ad essi, si aggiungono delle amiche di Marcello e in particolare Andréa (Andréa Ferréol), una maestra di scuola che si rivela ben presto lussuriosa e insaziabile. I protagonisti, accomunati dall’amore per la buona tavola, danno il via ad una maratona a base di cibo e piaceri carnali di ogni genere, fino ad un assurdo quanto tragico finale.
Ancora una volta, il grottesco si presenta come la struttura portante del cinema di Ferreri: i dialoghi, le gesta, gli atti e i modi di fare dei personaggi risultano essere volutamente sopra le righe, esagerati in ogni condizione, come esagerate sono le quantità di cibo da ingurgitare durante tutto il giorno. L’unico pensiero che essi hanno, non appena svegli, è quello di iniziare a deliziarsi e a cucinare qualsiasi pietanza, a qualsiasi ora del giorno. A questo si aggiunge poi la voglia di soddisfare un’ulteriore pulsione: quella sessuale, sempre più incontrollabile e fantasiosa. Da ciò scaturisce quindi un continuo parallelismo tra abbuffate quotidiane e coiti fini a sé stessi. L’intento dei quattro è quello di lasciarsi trasportare dai piaceri della carne e della gola, dando libero sfogo alla propria bulimia e avidità di piacere. Ecco che, ragionando per termini di paragone, la bocca e la vagina (rispettivamente per mangiare e copulare), diventano un tutt’uno, poiché rappresentano gli orifizi attraverso cui i quattro soddisfano i propri desideri, alimentari e fisici. Il cibo introdotto nella bocca richiama la penetrazione, e viceversa: entrambe le condizioni risultano essere interscambiabili, poiché hanno come fine ultimo il godimento a cui i quattro uomini aspirano costantemente.
Come già accennato, quindi, il corpo è l’elemento attraverso cui l’individuo percepisce le proprie voglie, carnali e psicologiche, da poter soddisfare tramite il raggiungimento del piacere. L’idea di Ferreri stava proprio nel voler mostrare alle persone il loro lato materiale e fisico, senza tanti sentimenti adatti a nascondere la realtà. La voglia di tornare a rappresentare l’uomo come animale fisiologico, dedito al piacere e al benessere più assoluto, si manifesta più volte: in particolare, emblematica risulta essere la scena in cui Philippe imita Amleto, quando quest’ultimo recita il famoso monologo dell’«essere o non essere» nella celebre tragedia shakespeariana; ma anziché farlo con il teschio come nell’opera originale, il produttore televisivo utilizza la testa di un bue facente parte del carico di alimenti, prossimi ad essere preparati e degustati in cucina. Oppure ancora, quando i corpi di Marcello e Philippe (trovati morti, l’uno congelato dal freddo e l’altro in preda ad un attacco esagerato di aerofagia, con conseguente scoppio delle sue viscere a causa del troppo mangiare) vengono posizionati all’interno di una cella frigorifera, come le carcasse dei vari animali da mangiare. L’uomo, privo di emozioni e sentimenti, è ridotto ad essere un animale, voglioso soltanto di soddisfare i propri bisogni in un vortice di pietanze, rutti, peti, amplessi e morti.
Il film, quindi, risulta essere un’allegoria contro la società del benessere e dei consumi in perfetto stile grottesco: un continuo intreccio tra erotismo e morte, tra cibo ed escrementi. I protagonisti, rinchiusi in una specie di “gabbia”, vengono sopraffatti dai piaceri più assoluti della vita in un folle processo di autodistruzione. Sarà proprio l’eccessivo godimento, infatti, a decretarne la morte. In particolare, Ugo vedrà la sua fine in una condizione estrema di piacere, mentre viene imboccato da Philippe e masturbato da Andréa. La sua morte è l’emblema del film: di nuovo, infatti, ritorna l’accostamento tra il cibo e il sesso, portando l’individuo in una condizione di estasi e goduria assoluta, tanto da risultare fatale. Philippe, ultimo dei quattro superstiti, decide di raggiungere i suoi amici mangiando una quantità spropositata di dolce a forma di seno: l’uomo, essendo diabetico, muore nel giardino della sua villa ormai vuota.
Ciò che rappresenta Ferreri, nella sua tipica visione pessimistica del mondo, non è altro che la degenerazione morale e identitaria della borghesia. L’individuo della società moderna è completamente annientato dalla voglia di soddisfare i propri istinti in maniera costante, anche quando non ne ha strettamente bisogno: l’edonismo, motivo di vita e di morte per i protagonisti, appare come qualcosa di centrale e allo stesso tempo irraggiungibile per essi (poiché ogni volta, sembra non bastare mai). Ugo, Michel, Marcello e Philippe vivono per godere dei piaceri culinari e della carne; ed è nei medesimi piaceri (o a causa di essi), che arrivano a morire. Mangiare, ma non per alimentare l’organismo; e fare sesso, ma non per concepire. Il tutto, per continuare incessantemente a vivere una condizione di benessere senza fine. Esemplare, in questo senso, è il pianto tragico di una delle ragazze presenti nella villa: «Siete grotteschi e disgustosi. Perché mangiate se non avete fame? Non è possibile, non è fame!». Anche a stomaco pieno, il fine ultimo dei protagonisti risulta essere lo stesso: riempire la bocca, deliziare il palato e ingozzarsi di qualsiasi pietanza, fino a starne male o sentirsi soffocati.
Quello che risulta chiaro, in fondo, è l’inutilità dei beni di consumo; ciò è definito da tutta quell’accumulazione negativa di alimenti che i quattro fanno sempre più fatica a deglutire, oltre che da tutti i rapporti sessuali a cui prendono parte. Cibo e sesso, ingordigia e lussuria, libidine e voracità: tra humor nero, satira, commedia grottesca e tragedia, La grande abbuffata resta probabilmente la summa (in Italia e all’estero) dei film di Ferreri, capace ancora oggi di evocare ideali e atteggiamenti tipici dell’uomo moderno.