Rumori di spari e di caccia. Un affresco rosso. Scuro, che nasconde, dentro di sé e dentro i tre scheletri che vi sono dipinti al suo interno, qualcosa di tetro e d’impronunciabile. Qualcosa percepibile in una crepa di questo muro, analizzato in una carezza da una macchina da presa, che indaga questo posto antico, che rivela persone ben vestite ma morte. L’analisi della camera finisce in un’ombra, che accompagna lo spettatore verso un armadio in cui escono urla disperate che invocano salvezza da una madre assente. Cambio location. Cambio musica. Cambio atmosfera. Cambio di tipologia di riprese. Da uno stile classico, si passa al contemporaneo. A un video in soggettiva, fatto con un telefonino, che diegeticamente interagisce con i vari personaggi, invitati a un matrimonio, che si fredda con l’arrivo di Edoardo Leo, la cui inquadratura permette uno stacco su Stefano Accorsi e l’inizio del film. La dea fortuna (trailer), che vuole trattare il tema dell’infelicità, che però, forse a causa dei numerosi tagli che ci sono dovuti essere in montaggio, come ha rivelato Ferzan Ozpetek alla conferenza stampa, perde la propria forza, diventando a tratti pesante e stanco.
La dea fortuna vede come protagonisti Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo), una coppia in crisi, che si ritrova a dover aiutare una loro vecchia amica, ovvero colei che li ha fatti conoscere (Jasmine Trinca). Questa donna, accompagnata sullo schermo sempre da musiche dai toni cupi, è costretta a recarsi in ospedale per un malore e dovrà dunque lasciare i suoi figli ai suoi amici. Questo sconvolgimento metterà in gioco i due uomini, tra gelosie, amore, ricordi, dolore e un disagio che il personaggio interpretato da Accorsi cercherà di nascondere dietro filmati, dietro un’immagine cinematografica che all’interno della storia assume un’importante significato. La dea fortuna, infatti, “fissa qualcosa, lo cattura e, chiudendo gli occhi, lo incorpora”. Lo stesso meccanismo di un obiettivo cinematografico che in questo film cerca di carpire tutti i non detti e le emozioni inespresse che anelano a una catarsi, che l’opera di Ozpetek sembra non voler raggiungere come se rappresentasse, come la fortuna stessa, un qualcosa d’inafferrabile.
La fortuna, spiegano all’interno della storia, per i romani era rappresentata dal caso. Un caso che dipende solo dall’individuo stesso e dalle scelte che esso fa e che pesano su di lui come un’insormontabile spada di Damocle, che accompagna solenne i personaggi e gli spettatori lungo l’intero film, soffocandoli, forse in un modo che poi appare poco sensato. Infatti, soffermandosi su scene, belle ma fini a se stesse, e tralasciando altre sequenze che invece chiedevano maggiore respiro, la sceneggiatura sembra girare, come una trottola, intorno a un vuoto che angoscia per una durata che, seppure classica (2 ore di film), pare eccessiva.
In conclusione, La dea fortuna è un film che parte in maniera coinvolgente e che sembra aprire allo spettatore la possibilità di una visione elegante, cupa e avvincente. Visione sostenuta dalla regia per tutta la durata della visione. Eppure, forse a causa di un montaggio che non è stato in grado di selezionare i momenti che andavano immortalati, o magari a causa di una sceneggiatura che ha avuto difficoltà a mettere a fuoco questo amore a volte malato (madre – figlia) e questa voglia intensa di felicità, La dea fortuna di Ferzan Ozpetek diventa un film che non ha né capo né coda e che lascia il pubblico stanco, vuoto e anche annoiato.