In un momento in cui la transmedialità è caratteristica principale non solo dell’audiovisivo, ma anche di molta critica, DassCinemag approfondisce con i professionisti del settore cosa questo comporta. Marina Pierri è la terza ospite del ciclo di interviste dedicato all’indagine. Direttrice artistica del Festival delle Serie Tv, docente, critica televisiva: Pierri è attiva su più fronti, offline e soprattutto online. Interpretazione, responsabilità e dialogo sono soltanto alcuni degli argomenti affrontati in questa sede, in cui si è discusso del suo lavoro e di come il web l’abbia cambiato.
Qual è il tuo concetto di critica e come stabilisci l’equilibrio tra opinione e criterio oggettivo?
Nella percezione comune la persona che si occupa di critica ti dice se un prodotto è bello o brutto. Ma per me questa non è critica, o per meglio dire, lo è, ma a un livello basico. Solitamente lo pensa chi la critica non la conosce, non la legge, chi (forse) è un po’ rimasto ancorato ad un modello dei primi anni duemila, in cui si esprimeva un giudizio in stelline e si bollava qualcosa come fruibile o meno. Il mondo è cambiato, però. Quando io avevo circa vent’anni le cose erano ben diverse: sono nata come critica musicale perché sotto casa mia a Bologna c’era un negozietto chiamato La Phonoteca che affittava cd e serviva qualcuno che tramite le recensioni orientasse il cliente al noleggio. In condizioni di differente reperibilità e accessibilità del prodotto culturale (penso allo spendere 20 euro per un cd, per esempio) la critica assume una funzione importantissima, in base alla quale le persone possono decidere se fare o meno un investimento, sia economico che di tempo. La critica che ti dice se qualcosa è bello o brutto è infatti un retaggio di quel passato, un passato in cui la disponibilità dell’oggetto culturale non era simile a quella contemporanea. Io credo che ora la critica si sia molto allontanata dall’idea di bello o brutto, ma anche dall’idea di giudizio imparziale. Si è spostata invece sull’interpretazione. Se tu adesso nel 2021 mi chiedi che cos’è la critica, io ti rispondo che per me la critica è interpretazione. E non è un’interpretazione imparziale. Qualsiasi persona all’epoca della cosiddetta “enciclopedia universalmente accessibile” (per parafrasare un concetto di Umberto Eco) è in grado di decidere da sé se il prodotto è bello o brutto. Se mi affaccio alla critica invece sono alla ricerca di un punto di vista al quale fidelizzarmi. Sono interessata alla lente attraverso cui un critico o una critica guardano il mondo e di conseguenza li leggo non perché voglio che mi dicano se qualcosa è bello o brutto o che mia diano un giudizio imparziale. Al contrario, li leggo proprio perché mi interessa la lettura che fanno del prodotto attraverso la loro lente specifica. Mi interessa un punto di vista forte, una voce nitida e la certezza che chi ti sta parlando del prodotto abbia molti termini di paragone per utilizzare la sua lente.
Secondo te il fatto che la critica si sia spostata verso l’interpretazione può considerarsi una reazione a siti quali Rotten Tomatoes o Metacritic, che fanno del giudizio in stelline il proprio punto di forza?
Assolutamente, anche se poi in realtà in base all’utilizzo che ne fai, Rotten Tomatoes può rivelarsi uno strumento straordinario, perché ti consente di leggere tutte le singole recensioni. Io lo utilizzo spesso così. È molto utile per avere una panoramica, ma non solo, perché leggendo le recensioni sul sito ti accorgi che sono pochi in realtà i giornali che utilizzano i voti. Ed ecco come Rotten Tomatoes si serve in verità di un approccio contemporaneo alla critica, dal momento che molte delle recensioni che contiene sono appunto interpretazioni, ma lo fa per fornire una panoramica veloce, assimilabile al modello obsoleto di cui parlavamo. Perché è anche vero che quel modello continua a tornare utile: in un momento in cui siamo sommersi dai contenuti permette di prendere delle decisioni veloci in merito a ciò che vale la pena guardare. Anche se è difficile che io personalmente mi faccia influenzare solo dal rating: ad esempio se Omicidio a Easttown ha il 97% non mi basta per convincermi a guardarla, vado a leggere delle recensioni che mi spieghino perché ne vale la pena. Per concludere, forse è vero che viviamo in un mondo in cui coesistono i due modelli: uno più veloce, funzionale a prendere in fretta delle decisioni e la critica, quella che mi sento davvero di definire tale, che è una critica interpretativa.
Come vedi la figura del critico oggi e in che modo il web ha modificato questa professione?
Io non credo ci sia lo stesso punto di partenza per chi si occupa di critica, ma posso parlarti del mio. L’oggetto culturale audiovisivo, ad esempio le serie tv che sono il mio specifico, non esiste mai in un vuoto, non inizia e non finisce nello schermo. Il prodotto seriale comunica con la realtà e nel momento in cui io faccio critica metto in luce il modo in cui lo fa. Identificandomi come transfemminista intersezionale tendo a legare il contenuto a questi temi e alla rappresentazione di questi temi, mentre chi si occupa di altro tenderà a mettere in luce gli aspetti di cui si occupa. D’altronde la serie tv contemporanee si legano alla realtà in talmente tanti modi diversi da spingermi a creare un festival. Venendo dunque alla tua domanda: la differenza è principalmente quantitativa. Quando devo scrivere per una rivista o per un quotidiano so di avere uno spazio limitato a disposizione. Devi dunque imparare a gestirlo. Con la webzine e con la critica online non c’è lo stesso problema e sicuramente la lunghezza è funzionale a un approccio più profondo, ma bisogna comunque catturare l’attenzione delle persone. Chi legge un articolo di diecimila battute? Ci deve essere un equilibrio. È importante che ci sia spazio per fare critica, ma questo spazio bisogna saperlo gestire, sia quando è limitato, ma anche quando è potenzialmente infinito. Perché bisogna sempre ricordare che la critica è prima di tutto un servizio: le persone devono ritenere utile ciò che scrivi.
Tu continui a scrivere molto in un momento particolare per la scrittura critica, in cui analisi e recensioni sopravvivono anche grazie all’audiovisivo. Come mai questa scelta?
Prima di tutto deriva dal fatto che io amo scrivere. La scrittura è la mia passione da quando sono piccola. Però sfrutto anche l’audiovisivo: aldilà delle dirette su Instagram che faccio spesso, sto portando avanti Jamb, un nuovissimo giornale di RCS, dove ci stiamo confrontando proprio con queste sfide. Come fare una critica profonda su un medium dove non tutti amano i wall of text? Se io su Instagram ho a disposizione duemila caratteri li uso tutti, ma non è detto che poi le persone leggano quello che ho scritto. Su Jamb stiamo cercando infatti di scrivere poco, ma dire molto. La sintesi è importante ed è così che sono riuscita a portare il mio lavoro su Instagram, che indubbiamente predilige la velocità e ti pone di fronte alla necessità di accettare questa sfida e di lavorare sulla tua capacità di fare critica in un modo diverso, sempre stando attenta a ciò che può essere utile alle persone (si chiama divulgazione apposta).
Secondo te quindi la critica è divulgazione?
Per me sì. Non bisogna giocare ad essere il più incomprensibili possibile, ma esattamente il contrario. Inoltre penso che sia la morte della critica dire soltanto “la fotografia è bella, la regia è hitchcockiana, le performance sono ottime, nel complesso è un bel prodotto”. Il mio è un approccio più complesso, plurale. La stessa critica è un pezzo microscopico dell’interpretazione dell’opera. E un’opera non sarà mai esaurita da una critica, nemmeno da dieci persone che fanno critica. C’è un concetto molto bello e adatto ai tempi che viviamo che è quello di mente-alveare. Il prodotto artistico è il favo e noi siamo tante api.
Visto che ti approcci a entrambi i formati, online e offline, che tipo di feedback hai per l’uno e per l’altro e cosa cambia a livello di critica tra i due? C’è un compromesso che devi raggiungere?
Se io scrivo un post su Instagram do la possibilità alle persone di commentare e darmi il loro punto di vista, se scrivo su un giornale ciò non accade. Una volta l’unico modo per comunicare le proprie opinioni a chi scriveva era tramite le lettere al direttore e poi invece c’è stato un momento in cui con la rivoluzione digitale si è imparato a coesistere in una sorta di agorà dove commentare in tempo reale. I social network hanno avuto un grosso impatto sulla critica. La stessa cosa, ma senza la mediazione data dalla presenza di una testata, avviene se parliamo di una critica “uno a molti” come quella che faccio io con i miei post. Si sono aperte delle possibilità di dialogo, che a volte mostrano un lato negativo però, come ai tempi delle ultime stagioni di Game of Thrones, quando scrivere che non erano delle buone stagioni significava far arrabbiare molte persone. A volte delle testate ti chiedono proprio di fare degli articoli controversi per il clickbait. D’altro canto non c’è più alcuna tutela per chi scrive, le persone a volte non si sentono libere di offrire un punto di vista proprio, perché si rischia di incappare in una shitstorm. Anche se nella mia esperienza quando si parla di audiovisivo succede più su Facebook che su Instagram, che è invece una piattaforma interessante perché consente di mantenere un rapporto piuttosto pacifico con la propria community. Con Instagram ho molta soddisfazione e mi piace utilizzarlo per fare critica perché ho un canale che è interamente mio e non devo rendere conto a nessuno, sono io che ho il timone e scelgo di che scrivere, senza dover parlare per forza di qualcosa in tendenza su Netflix ad esempio.
Come gestisci la responsabilità che deriva dall’avere del seguito?
Con gioia! L’approccio trans-storico all’arte la esenta da ogni responsabilità. Si deresponsabilizza l’artista (da qui l’idea di separare l’arte dall’artista appunto). Si ha l’idea che un prodotto artistico sia superiore alle persone, che possa parlare in maniera universale a chiunque, che è praticamente il contrario dell’intersezionalità. Io invece non credo che l’arte sia superiore, ma sia fatta dalle persone per le persone. E il discorso della responsabilità per me non vale solo per il mercato artistico, ma anche per un paramercato artistico come quello della critica. Se io guardo La regina degli scacchi, una serie ok ma senz’altro non femminista, sento la responsabilità di comunicarlo. Percepisco il dovere e il piacere di essere una persona che ha degli strumenti che opportunamente divulgati possono essere utili per altre persone.
Il festival è quanto di più novecentesco esista, mentre al contrario le serie tv sono qualcosa di molto contemporaneo. Parlaci del tuo Festival delle serie tv.
L’obiettivo è sicuramente sempre stato avere una critica che fosse live con le persone al centro. Però più passa il tempo più ci evolviamo e indaghiamo tutto ciò che è industria. A me interessa l’industria della serialità televisiva e il mio lavoro di critica diventa sempre di più questo: capire cosa c’è dietro la serialità. Il primo anno abbiamo avuto un solo palco, il secondo anno tre, quest’anno ne avremo cinque. Diventa un festival sempre più composito: c’è una parte dedicata allo spettacolo, dove persone diverse parlano di serialità in maniere diverse. Esiste poi una parte industry dove si discute con le persone protagoniste di quel mondo. Io fatico a non avere un approccio sistemico alla serialità e voglio dunque che il festival lo abbia, perché la serie tv non è solo un prodotto, ma è anche ideologia. Non esistono prodotti audiovisivi apolitici, perché sono fatti da persone che portano con sé, anche inconsapevolmente, il sistema politico che abitano. Per me questo è sempre stato fonte di interesse. Una cornice come il festival non è più una vetrina e lo diventerà sempre meno, perché abbiamo l’ambizione di un festival interattivo, sentiamo la necessità di uscire da quella cornice novecentesca di cui parli e costruire qualcosa che sia contemporaneo nella vocazione dialogica. Il dialogo è fondamentale, perché se parliamo di serialità televisiva, come facciamo a non parlare di comunità? La serialità televisiva è comunità. Le serie tv si guardano perché se ne parla.
Hai detto essere centrale l’attenzione all’industria nel tuo approccio, mentre è qualcosa che spesso manca nella critica. Come sei arrivata a sviluppare questo interesse?
Il discorso dell’industria è ancora una volta un discorso politico. L’arte non è immutabile, non esiste in un empireo, un prodotto artistico non è sopra le persone, così come non lo sono gli artisti (il maschile è voluto). Questa visione del prodotto culturale non tiene in considerazione il fatto che l’artista è calato in un contesto che viene restituito in un prodotto artistico. Se si parla di contesto non si può parlare di immutabilità. La società cambia, così come il nostro modo di guardare un prodotto, sempre frutto del contesto. Il mio è – almeno in piccola parte – un approccio marxista: economia e industria determinano l’arte, ovviamente sempre in un’ottica sistemica e complessa. D’altra parte invece esiste quell’idea tale per cui il prodotto artistico è atemporale e trans-storico. Non si concepisce che il prodotto artistico possa essere toccato dalla storia, mentre invece un approccio contestuale, che non separa neanche l’arte dall’artista, è un approccio che per quanto mi riguarda è molto più complesso. Perché è un approccio che trascende l’opera d’arte in sé e si lega a quello che c’è intorno all’opera d’arte, aggiungendo così numerosi strati di significato. Ti consente di costruire paragoni, di riflettere sull’arte come prodotto dell’inconscio collettivo. Il mio approccio dunque non considera l’arte immanente, ma circostanziale. E secondo me è questo il bello dell’arte. Tutto ciò che sentiamo oggi, a partire dalla fantomatica dittatura del politicamente corretto, deriva purtroppo dalla percezione del prodotto artistico come immanente e immutabile.
Quali consigli puoi dare a dei giovani che vogliono intraprendere questa professione?
Sicuramente consiglio di non porvi limiti nell’interpretazione. La chiave per fare grande critica è l’analisi del testo. Le recensioni tendono ad essere standardizzate, mentre quello che è straordinario è capire come un prodotto dialoga con la realtà e con altri prodotti.