
Quanti di voi credevano che anche Roma potesse ospitare il proprio eroe? Probabilmente nessuno. Così influenzati da miliardari in armatura e patriottici con lo scudo a stelle e strisce, nessuno pensava che anche il più semplice dei cittadini romani potesse diventare il protagonista di vicende incredibili. Tutto questo prima che Gabriele Mainetti insegnasse che eroi lo si può diventare anche senza una calzamaglia, anche se il proprio passato non è dei più nobili, anche se vieni da una realtà in cui gli eroi non esistono. Lo chiamavano Jeeg Robot era questo: un insolito film che trattava il tema supereroistico non allontanandosi dalla realtà, ma proprio tramite essa, ed oggi, dopo quasi dieci anni e un Freaks out meno riuscito, Mainetti torna in sala con La città proibita (trailer), il tanto atteso kung fu movie ambientato in Italia.
Mei (Yaxi Liu) è una ragazza addestrata fin da bambina all’utilizzo delle arti marziali. Vittima della politica del figlio unico, la ragazza è stata costretta a vivere nella propria casa fino alla maggiore età, momento in cui si reca in Italia alla ricerca della sorella maggiore misteriosamente scomparsa. Coinvolto nella sparizione troviamo un clan criminale di origine cinese radicato in Italia, che gestisce i traffici illegali di immigrazione e prostituzione sotto il controllo di Mr. Wang (Chunyu Shanshan). Nella sua sanguinosa indagine la protagonista fa la conoscenza di Marcello (Enrico Borello), un cuoco impegnato nel portare avanti l’attività di famiglia con scarsi risultati, visto i debiti in cui riversa. Anche il ragazzo vive il dramma della scomparsa di suo padre (Luca Zingaretti), la cui assenza sembra legata a quella della sorella di Mei. Coinvolti in questa indagine troviamo anche Annibale (Marco Giallini), un boss che sfrutta illegalmente l’immigrazione, e Lorena (Sabrina Ferilli), la madre di Marcello che vive la scomparsa del marito.
Coerentemente con altri personaggi del cinema di Mainetti, anche Mei è la voce di una realtà dimenticata. Dove Enzo di Lo chiamavano Jeeg Robot era la rappresentazione degli emarginati, degli esclusi, così Mei è la vendetta, l’odio delle donne abusate da una società che le dimentica. Mei è la voce di chi soffre in silenzio senza essere visto, l’odio di chi viene sfruttato per scopi personali, la vendetta di intere schiere di dimenticati che finalmente hanno un peso nell’equilibrio generale delle cose. Pur non essendo una paladina delle masse e agendo per lo più per scopi personali, la missione di Mei non può che assumere una dimensione sociale visto ciò che finisce per rappresentare. Al suo opposto troviamo Marcello, un ragazzo comune, lontano dall’ideale di mascolinità tipico dei superhero movie, che cerca di essere un buon figlio per la madre, un buon cuoco per l’attività di famiglia, dimenticandosi ciò che desidera veramente. Un ragazzo come tanti, di quelli disposti a vivere in funzione degli altri più che di sé.

Anche i personaggi secondari hanno una loro profondità, non memorabile, ma funzionale al racconto. Annibale, ad esempio, è un boss di bassa lega che incarna l’odio razziale tipicamente italiano, purtroppo. Intriso di ideologia razzista solo per giustificare l’insoddisfazione verso la propria vita, egli vede nell’immigrazione una comoda fonte di guadagno illegale, coniugando il tutto con una buona dose di discorsi populisti, come tanti al giorno d’oggi. Meno riuscito ma comunque interessante è Mr. Wang, il capo della mafia cinese impiegata nel traffico di esseri umani. Guidato dal desiderio di essere un capo, ma ancorato al sogno di essere un buon padre, finirà per mettersi in discussione numerose volte proprio a causa di questa sua scissione interna. Il personaggio meno memorabile è proprio quello di Lorena, funzionale al racconto ma ben lungi dal lasciare il segno.
Sapientemente diretta, la pellicola di Mainetti è animata da combattimenti che Mei si impegna a rendere meno scontati possibile, trasformando anche una grattugia in un’arma temibile. L’autore dirige con una regia chiara e al tempo stesso dinamica e non smette di rimandare ad un immaginario ben preciso, ovvero quello dei Kung fu Movie anni ’80, pur ritrovandosi in un contesto decisamente diverso. Dalla struttura verticale di un edificio colmo di nemici, fino alla fotografia dai toni accesi e dai netti contrasti durante i combattimenti, l’opera è una dedica agli action orientali più diversi. Nonostante questo, la Roma di Mainetti è tangibile e mai snaturata, diventando teatro di vicende assurde ma in forte connessione con la realtà, una realtà violenta dalla quale fuoriesce un barlume di fantasia che la rende meno atroce.
Dopo averci narrato di un gruppo di Freaks che combatte i nazisti, di un criminale che si trasforma in un supereroe, di un gruppo di buffi rapinatori appassionati di Lupin o di un bambino che affronta il proprio abusatore grazie ad una maschera, Mainetti torna in sala con una storia classica ma ricca di metafore del contemporaneo, mostrandoci che l’Esquilino, con un po’ di fantasia, non è poi così diverso dal set di un film con Bruce Lee.
Al cinema.