Questo articolo contiene la recensione della nuova edizione home video della società inglese 88 Films del film thriller-horror La casa con la scala nel buio (1983), diretto e montato da Lamberto Bava, contenente anche il sonoro italiano. L’occasione è utile per un’analisi del film, perciò quanto segue nella seconda parte contiene spoiler: si invita a leggere solamente dopo averlo visto.
Il giudizio sull’edizione limitata è ottimo. Il cofanetto in cartone, con un gustoso disegno originale di Graham Humphreys, racchiude la custodia di plastica con due dischi (UHD-BD e BD), un libretto e un poster A3. Il contenuto dei due dischi, prescindendo dalla definizione, è il medesimo a esclusione di buona parte dei contenuti speciali (inseriti solamente nel BD). I dischi presentano due versioni del film, rimasterizzate in 4K a partire dai negativi originali, con rapporto d’aspetto 1:66:1, audio italiano e inglese mono, e sottotitoli inglesi rimovibili. La prima versione è quella voluta dal regista, di 97’, che espunge delle lungaggini dal racconto (ma non l’orrore); la seconda è quella che aveva circolato normalmente, di 109’. A seconda dell’audio che si seleziona dal menù, cambiano anche i titoli di testa e di coda – gialli quelli in italiano, bianchi quelli in inglese (si possono alternare gli uni con gli altri anche con la funzione multi-angolo). Ciò offre la possibilità di scoprire come apparivano tali scritte a seconda dell’area geografica. La qualità video e audio è eccezionale: le immagini (in 2160p – con Dolby Vision High Dynamic Range, compatibile con HDR10 – oppure in 1080p, a seconda del disco) sono dettagliatissime e ricche di grana, di contrasto e di densità cromatica. Sembra quasi di vedere direttamente una copia a 16 mm.
Sia l’audio italiano sia quello inglese (ambedue in DTS-HD MA 2.0 dual mono) sono pastosi e lasciano trasparire anche del rumore e dei difetti senz’altro intrinseci al lavoro originale. Insomma, la digitalizzazione è rispettosa delle fonti analogiche, come si confà a un’edizione filologicamente accurata. I contenuti speciali, in parte inediti, sono interessanti: troviamo il commento audio in inglese alla versione corta di Eugenio Ercolani, Nathaniel Thompson e Troy Howarth, ricco di utili riflessioni sul film, sulla carriera di Bava e sul genere; nuove interviste in italiano a Bava, al direttore della fotografia Gianlorenzo Battaglia, e al produttore Mino Loy; un’intervista già edita dalla stessa 88 Films a Battaglia; una conversazione pubblica in inglese con Bava; le sequenze dei titoli di testa e di coda in italiano, che comunque sono integrate nel film selezionando l’audio italiano; il trailer inglese e quello italiano.
Il libretto, in inglese, è costituito di tre interessanti saggi. I primi due, rispettivamente di Barry Forshaw e di Daniel Burnett, offrono un commento al film e riflettono su quelli che lo hanno influenzato (sia italiani sia non: Burnett menziona in particolare Brian De Palma; v. sotto). Il terzo, del grande esperto del genere Pier Maria Bocchi, analizza il film contestualizzandolo con notevole sagacia nella produzione thriller-horror italiana degli anni ’80. L’elegante confezione contiene pure la locandina del film in A3: su un lato troviamo la riproduzione dell’immagine originale, sull’altro il nuovo disegno presente sul cofanetto. Ulteriore tocco di classe: anche la fascetta è a doppia faccia con queste due illustrazioni, cosicché si possa scegliere quale si preferisce rendere visibile. L’acquisto è decisamente raccomandato.
Lamberto Bava è ovviamente un figlio d’arte: suo padre Mario Bava fu uno dei più importanti esponenti del cinema di genere italiano. Lamberto (d’ora in poi: Bava tout court) ha seguito le orme del padre dedicandosi al thriller, all’horror e al fantastico, esordendo nel 1980 con Macabro. La sua fama è dovuta soprattutto a Dèmoni (1985): nell’intervista, Bava dichiara che questo è il suo film migliore oltreché il più noto, cui si aggiungono nell’ordine Fantaghirò (1991, miniserie TV, cui ne seguono altre cinque sempre da lui dirette), Ghost Son (2007), Macabro (1980) e La casa con la scala nel buio. Quest’ultimo è un giallo (come piace dire nel mondo anglosassone) poco celebrato, benché si tratti di uno dei migliori del decennio. Originariamente concepito come una miniserie TV, fu poi presentato nelle sale cinematografiche italiane – nella versione da 109’ – poiché ritenuto troppo violento per la trasmissione televisiva (in Italia è vietato ai minori di 14 anni, nel Regno Unito di 18).
Come ammette lo stesso regista, c’è un evidente debito verso Dario Argento, che egli ritiene un maestro insieme a Mario Bava e a Michele Soavi – nonché, con dichiarato orgoglio, se stesso, battendo persino Lucio Fulci. L’influenza di Argento si noterebbe soprattutto nel primo omicidio del film, ai danni di Katia (Valeria Cavalli), che perisce a causa di un taglierino. La sequenza più efferata, lo zenit della violenza sanguinolenta del film, è quella in cui Angela (Fabiola Toledo) viene uccisa nel bagno: l’assassina le trafigge una mano col coltello, le frattura il cranio percuotendolo attraverso una busta di plastica, e infine la sgozza, dedicandosi poi a ripulire il bagno del copioso sangue. Qui, Bava ritiene di aver dato maggiormente esempio della sua personale inclinazione al genere.
Il film ha i difetti che ci si possono facilmente aspettare. Anzitutto, la sceneggiatura di Elisa Briganti e del veterano Dardano Sacchetti presenta dialoghi insulsi nonché personaggi che sbucano dal nulla dentro la villa e che si comportano in modo strampalato. Poi, la recitazione non è esattamente irresistibile: si salvano Anny Papa (Sandra, la regista) e Michele Soavi (Tony, il proprietario della villa), mentre il protagonista Andrea Occhipinti – malgrado l’elogio di Bava – sembra impacciato, e le altre attrici paiono scelte, come da stereotipo, per il loro bell’aspetto piuttosto che per la capacità attoriale. Per il resto, invece, la stessa sceneggiatura è alquanto inventiva. Pur non sembrando dichiarato, il debito nei confronti di due film statunitensi di Brian De Palma di poco antecedenti – ossia Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) e Blow Out (Id., 1981) – è difficilmente contestabile, tanto da far risultare La casa con la scala nel buio la risposta italiana ai due illustri predecessori. Anzi, l’elemento autoriflessivo del film sembra spinto persino oltre quanto abbia fatto De Palma con Blow Out. Entrambi i film si aprono con un (finto) film en abyme cui lavorano i rispettivi protagonisti – un fonico in Blow Out, un compositore ne La casa con la scala nel buio.
Di conseguenza, ambedue i personaggi sono dediti al suono e utilizzano strumenti di registrazione audio. Tuttavia, mentre il film en abyme di De Palma ha in comune con la storia principale solamente la presenza di un assassino seriale, quello di Bava nasconde – a noi e alla stessa regista, nonché al protagonista – la rivelazione finale circa l’identità dell’assassina. Sebbene il titolo del film en abyme non sia menzionato, fuori della sala di montaggio (in realtà, la sede degli studi romani di Nuova Dania Cinematografica, una delle case produttrici) si riesce a leggere La casa dalle scale buie, titolo pressoché identico a quello del film stesso, a conferma del gioco di scatole cinesi che oggi chiameremmo postmoderno.
Inoltre, laddove il brano musicale che apriva Blow Out (musica di Pino Donaggio) era circoscritto al film en abyme, il tema de La casa con la scala nel buio (musica di Guido e Maurizio De Angelis, noti anche come duo Oliver Onions) lo ascoltiamo pure in seguito come presenza extradiegetica del film primario nonché dal pianoforte di Bruno e quindi dai suoi nastri magnetici: in questo secondo caso, esso funge non solo da indice di un evento diegetico bensì anche da commento alle scene topiche. Per giunta, l’applicazione dell’equalizzazione da parte di Bruno al nastro per tentare di comprendere le parole accidentalmente registrate, le quali potrebbero fornire indizi cruciali sugli omicidi, non può che ricordare quanto faceva il protagonista di La conversazione (The Conversation, USA 1973), film il quale a sua volta deve aver influenzato Blow Out. Circa Vestito per uccidere, si segnalano due eclatanti affinità: nel La casa con la scala nel buio, Katia viene ferita alla mano col taglierino in una posa affine a quella assunta da Kate (Angie Dickinson) quando il rasoio la colpisce nell’ascensore nel film americano; in entrambi i casi, inoltre, l’assassina/o è un personaggio maschio vestito da donna, con tanto di parrucca.
Un altro aspetto stilistico insolitamente curato è la fotografia di Gianlorenzo Battaglia: pur essendo al suo primo film come direttore della fotografia (nonché operatore di macchina), egli si era fatto notare come esperto di riprese subacquee in film italiani e non (p.es., Popeye – Braccio di ferro [Popeye, 1980]) – ed è proprio per questo che La casa con la scala nel buio contiene una scena filmata sotto l’acqua di una piscina. Le scelte di luci e di lavoro di macchina di Battaglia per questo film valorizzano la scenografia di Stefano Paltrinieri, che sfrutta la villa romana di Luciano Martino – il quale produce con la sua società Nuova Dania Cinematografica. Dai contenuti speciali si evince che l’idea del film nacque proprio dal desiderio di Martino di utilizzare la sua nuova, futura abitazione, ancora disadorna. La fotografia ricorre sia a eleganti movimenti di macchina, sia alle riprese a mano, e abbonda di suggestive inquadrature da diverse angolazioni e con un magistrale ricorso ai dettagli – il quale è un ulteriore evocazione dello stile di Argento.
In particolare, è difficile non pensare Tenebre (1982), scritto e diretto proprio da Argento, con la sontuosa fotografia di Luciano Tovoli, e per il quale Bava aveva lavorato come aiuto regista (mentre Soavi era assistente alla regia). Sebbene La casa con la scala nel buio non possa competere con la ricchezza narrativa e stilistica del film di Argento, esso offre comunque un efficace intrattenimento e degli spunti interessanti sia formali sia pertinenti all’identità di genere: basti citare la regista del film horror en abyme, che indossa abiti mascolini, e l’assassino gender bender, il cui trauma infantile nell’ultima scena non viene ridicolizzato o condannato bensì descritto con compassione. In fondo, la colpa di Tony era solamente quella di non essere conforme a una mascolinità stereotipica imposta dai suoi ottusi coetanei, dunque da una società opprimente.
Di Valerio Sbravatti.