#RomaFF19: L’isola degli idealisti, la recensione del film di Elisabetta Sgarbi

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Quella dei Reffi è una famiglia particolare. Un anziano padre (Renato Carpentieri), da giovane famoso direttore d’orchestra, vive nella propria villa assieme ai due figli adulti, l’uno (Tommaso Ragno) ex medico – radiato dall’albo per aver somministrato una dose letale alla sofferente amata di un tempo per volontà di lei stessa –, l’altra (Michela Cescon) aspirante scrittrice, che, però, continua a ricevere continue bocciature da parte del suo editore. La villa è situata su una piccola isola di cui i Reffi sono gli unici abitanti. Una sera vi approdano due truffatori in fuga (Renato De Simone ed Elena Radonicich), che, essendo stati prelevati e portati al cospetto del vecchio padrone dal guardiano dell’isola, chiedono con atteggiamento sfrontato alla famiglia di non denunciarli alla polizia e, anzi, di ospitarli per qualche giorno. All’opposizione del padre, il figlio prontamente acconsente. Si pone la sfida di rieducare i due fuggiaschi, in un percorso di riconquista dell’identità.

L’isola degli idealisti, in concorso nella categoria Progressive Cinema della diciannovesima Festa del cinema di Roma, è l’ultimo lungometraggio diretto da Elisabetta Sgarbi e largamente ispirato all’omonimo romanzo di Giorgio Scerbanenco, andato perso durante gli eventi della Seconda guerra mondiale e ritrovato nell’archivio di famiglia dell’autore.

La sequenza d’apertura preannuncia un film dall’aspetto visivo piuttosto piacevole. Il direttore della fotografia Andres Arce Maldonado coglie, degli esterni, il bianco della foschia, che invade l’inquadratura, i toni verdi della natura che circonda la villa e quelli marroni che tingono la laguna. Gli interni, curati dalla scenografa Monica Sallustio, sono dominati da un elegante arredamento in stile classico, mentre solo una camera ci viene mostrata in stile moderno, decorata da motivi alla Mondrian. La villa emana un’aura di austerità, che si spera preluda ad una visione altrettanto suggestiva che, purtroppo però, non arriva.

Non basta che il solenne tappeto musicale di Michele Braga sia disteso lungo tutto il film, presente in ogni scena – fino a risultare, tra l’altro, invadente e costituendo un fattore di distrazione –, per conferire a L’isola degli idealisti un pathos che sembra costantemente affannarsi a raggiungere, ma di cui, inesorabilmente, manca, dall’inizio alla fine. Anzi, l’opera di Sgarbi finisce per condirsi spesso di un tono comico involontario per cui lo spettatore ride di essa, celando dietro al riso un lieve sentimento di frustrazione, mentre la stessa pellicola, tristemente, si trattiene dal ridere di sé.

La sceneggiatura di Sgarbi ed Eugenio Lio non funziona soprattutto nella prima parte del film, in cui la resa forzata dei dialoghi, con la meccanicità/non-voluta-teatralità della recitazione a cui essa inevitabilmente costringe anche interpreti dalle indubbie capacità attoriali (Carpentieri, Ragno), rende L’isola degli idealisti uno spettacolo di marionette, a cui, però, non si era preparati.

La pellicola sembra riprendersi leggermente sul finale, grazie all’effettiva emotività trasmessa dalla sottotrama dell’innamoramento tra il figlio Reffi e la giovane della coppia fuggitiva – per via anche dell’innegabile chimica tra i due attori – e a qualche snodo di trama più difficile da prevedere. Ma, comunque, L’isola degli idealisti non riesce a risollevarsi: rimane una visione che ci si può risparmiare.

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