Alla 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia sono stati diversi i film dedicati a storie di giovani madri, gravidanze indesiderate e tentativi di riappropriazione del proprio corpo. Tra questi, nella selezione ufficiale del Concorso, c’è anche L’événement, pellicola di Audrey Diwan adattata (dalla regista assieme a Marcia Romano) a partire dal libro autobiografico di Annie Ernaux.
Un racconto profondamente carnale quello che va a trasporre la Diwan, collocato nella Francia di un 1963 lasciato quasi totalmente nel fuoricampo per quello che riguarda la ricostruzione storica di ambienti e costumi. Uno spazio dalla traccia atemporale ma il cui rigore morale dello stato è punto cardine, incasellato nei colori tenui di un 4:3 all’interno del quale peregrina Anne, una Anamaria Vartolomei i cui lineamenti tra il morbido e l’adulto restituiscono tutta la frustrazione del personaggio.
Anne è una ragazza giovanissima, una studentessa poco più che ventenne alla facoltà di lettere con il sogno di diventare scrittrice, calco forse impalpabile dell’esperienza personale della Enaux ma sicuramente funzionale ad allargarsi all’universalità. Un giorno scopre di essere rimasta incinta di un uomo pronto a disinteressarsi di quella situazione e solo uno dei tanti uomini che vorticano in L’événement, legislatori e giudici del corpo e del vissuto altrui, soprattutto se l’altro è una donna.
Come dicono le amiche di Anne, «incinta no, è la fine del mondo», un mondo dove ci viene ricordato che la legge è inflessibile e costringe la sessualità in un regno clandestino e inconfessabile, in cui i giovani sono relegati nell’interstizio tra desiderio e proibizionismo. «Tutti vogliono la stessa cosa» dirà Anne nell’osservare il ballo dei suoi coetanei, stretti a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro in una danza che è sfogo rituale di una volontà impraticabile, di una conoscenza del proprio corpo da affrontare nell’ombra di un peccato non solo divino, ma che si è fatto affare di stato. Il ’68 è distante ancora qualche anno e questa tensione, sintomo di un’insoddisfazione generazionale, si fa vapore incandescente nella pentola a pressione che di lì a poco sarà pronta a scoppiare tra le mani dei quadri di partito di tutto il mondo.
Nel frattempo però Anne è eroina tragica, martire obbligata a scontrarsi con un muro di gomma con su incise le posizioni ideologiche che navigano dalla codardia all’ignavia, dall’approfittarsi del prossimo allo spingerlo alla vergogna. L’événement comprime la sua protagonista nell’angusta morsa di una disperazione il cui unico punto di fuga è il ricorrere ad atti estremi, le cui conseguenze sono altrettanto radicali e battezzate nello strazio del sangue. E la Diwan sfoltisce il più possibile i rami narrativi che non siano strettamente riflesso della condizione di Anne, pressata da vicino e il cui volto è spesso l’unico termine referente dell’inquadratura.
Partecipiamo ai timori, alle perplessità e al dolore corporeo che non viene risparmiato su schermo e fa sudare nelle glaciali attese di alcuni terribili attimi che non drammatizzano nulla se non la verità. Alla fine resta l’amara sensazione con la quale L’événement non appare poi così distante dalle lotte che infuriano tutt’oggi per la possibilità di scelta che spetta (o dovrebbe spettare) al corpo femminile, troppo spesso negata in virtù di obiezioni di coscienza che stridono in modo anacronistico all’interno dello stato di diritto in cui viviamo.