#RomaFF19: L’albero, la recensione del film di Sara Petraglia

L'albero recensione film Sara Petraglia

C’è un pino che spicca nel panorama cittadino del Pigneto. Bianca e Angelica, due ragazze dai nomi innocenti che tanto innocenti non sono, se ne innamorano subito. Altrettanto rapidamente, però, si dimenticano di quel sentimento puro e delicato, distratte e trasportate da altro. E noi iniziamo a seguirle, per cercare di capirle. L’albero scritto e diretto da Sara Petraglia e presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2024, è una ricerca altalenante nell’animo inquieto di un personaggio.

L’albero non è un film generazionale: parla di un personaggio, non di una generazione. Non c’è una storia sui giovani. C’è solo Bianca (Tecla Insolia, la Modesta de L’arte della gioia). Anche se l’attrice non ha nessun momento eccezionale da interprete shakespeariana, riesce a raccontare l’interiorità e la complessità del personaggio. Bianca è sempre in bilico: fra vita e morte, per il suo rapporto con la cocaina. Fra amore e odio, per il suo rapporto con l’altra protagonista, Angelica (Carlotta Gamba, la figlia del detective di Dostoevskij). Per questo la passione per Leopardi, la poetica dell’infinito, il fascino dell’indefinito.

Petraglia adegua tutto il film all’instabilità del personaggio. La sceneggiatura non ha una struttura solida, anche se ci sono tanti rimandi interni e riprese ben congegnate. Bianca non affronta una trasformazione da manuale: pensa in un modo, agisce in un altro. Prima si droga, poi smette, poi ci ricasca. Un limbo costante, legato alla relazione di amicizia/amore (anche qui, indefinibile) con l’amica Angelica. Anche la regia è molto mobile: macchina a mano, tanti movimenti, tante inquadrature. Petraglia cerca i primi piani delle due ragazze, che, però, le scappano in continuazione, come se sapessero quando sta arrivando la macchina da presa su di loro. L’albero è un continuo vedo/non vedo, leggero e fragile come la sua protagonista.

Queste scelte, comunque, chiedono un impegno particolare allo spettatore. L’assenza di una storia rallenta il ritmo del film, poco incalzante e coinvolgente. Soprattutto, si affronta il tema delle dipendenze in un modo che impedisce un’immedesimazione piena. Le droghe sono viste da lontano, non sono il centro de L’albero. Sono uno strumento di Petraglia per l’indagine psicologica di Bianca, per raccontare la ricerca di uno stato di sospensione del personaggio. Perciò, si sospende anche il giudizio riguardo il tema. Ovviamente non c’è un’apologia della cocaina, ma non c’è neanche una scontata condanna morale su cui (forse) saremmo tutti d’accordo.

L’albero, così intimo e psicologico, non punta a entrare in empatia con lo spettatore, a commuoverlo o conquistarlo. E, infatti, non lo fa. È un film studiato per descrivere un personaggio. Questo lo rende un film complicato, difficile e per niente accattivante. Bianca è un personaggio solitario, come l’albero che la strega all’inizio del film. Ha un rapporto con tante persone e tante cose, ma non riesce a riesce a trovare una sintonia con niente e nessuno. Rincorre la malinconia, il contatto con la sofferenza, il mal di vivere leopardiano. E il film rincorre lei, senza curarsi se chi sta guardando li sta seguendo.

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