Da qualche settimana è disponibile su Netflix Il filo nascosto (trailer), quello che potremmo benissimo definire un altro importantissimo tassello nella filmografia di Paul Thomas Anderson. Un appassionato omaggio ad un cinema forse definitivamente scomparso, un omaggio al classicismo formale di maestri come Hitchcock, a titoli come Rebecca, i cui fantasmi riecheggiano tra le mura di casa Woodcock. Così come una storia di fantasmi, che guarda al passato, è quella del protagonista Reynolds. Anderson con questo titolo forse giunge alla summa di una progressiva “asciugatura” del suo cinema, che a breve (con il nuovo film in uscita a dicembre) capiremo dove porterà.
Dopo aver superato la fase centrale della sua carriera, Il petroliere – il grande film americano, a metà tra la classicità di Ford e la postmodernità di Altman (come riscrittura del mito americano della frontiera, l’alba dell’era industriale) –, l’autore californiano ha intrapreso un nuovo modo di narrare, esplorando in profondità il Novecento, nelle sue fasi più critiche oseremmo dire (il secondo dopoguerra con The Master e Il filo nascosto e la West coast statunitense di fine anni Sessanta con il folgorante Vizio di forma).
Questa progressione che ha interessato gli anni Dieci di Anderson è inevitabilmente caratterizzata da un modo di narrare fuori da qualsiasi contesto, fuori da qualsiasi categorizzazione contemporanea. Fuori dal mondo, a questo punto. L’unicità di Anderson sta nell’uscire, immergendosi allo stesso tempo, dall’epoca narrata (per quanto peculiare), unicamente per raccontare l’Uomo e i rapporti che vengono ad instaurarsi con altri particolarissimi uomini, in tutti i loro crismi. Quasi volessimo azzardare, una quintessenza del piacere di narrare (la sequenza iniziale de Il filo nascosto).
Costante di questi film, infatti, è la rappresentazione di dinamiche opposte ma allo stesso tempo vicine, riassumibile comodamente in una dinamica di amore/odio come motore delle sue pellicole. Certo, la parabola cristiana del Figliol prodigo e le sue varie declinazioni già erano fortemente presenti in Boogie Nights. Burt Reynolds e Mark Whalberg sotto questo punto di vista non sono così distanti dalle accoppiate dei tre film sopracitati degli anni Dieci (Phoenix/Hoffman, Phoenix/Waterston-Brolin e Lewis/Krieps). Ma ciò che differisce dalla pellicola del ’97, così come il rapporto padre/figlio de Il petroliere, sta proprio nella visceralità raggiunta dal regista californiano col passare degli anni. Più che asciugarsi, allora, in questo caso, stratificare il processo di lettura da parte dello spettatore. Portare alle estreme conseguenze l’approfondimento dell’amore e dell’odio che i personaggi vivono nei confronti del loro partner, del loro padre/madre o del loro nemico.
“Kiss me, my girl, before I’m sick”: la vera chiave di volta nel rapporto tra Reynolds e Alma, un abito che viene strappato e ricucito, rattoppato, ma sempre percorso dallo stesso filo – nascosto – che prima o poi finirà per completarlo, qualsiasi sia il risultato finale (cosa succederà dopo i titoli di coda?). Reynolds è sempre lì, in bilico tra memoria (in una costante fase pre-edipica: egli non vuole abbandonare la madre, il cui fantasma verrà anche a materializzarsi in una sequenza) e presente (Alma). È il nucleo drammatico attorno il quale tutti gli snodi drammatici del film convergeranno.
Reynolds agisce nell’ombra, tra le polveri di una vecchia casa di campagna dove tutto deve restare intatto, dove nient’altro che manichini possono entrarvi per permettergli di confezionare l’abito perfetto; è come se vivesse unicamente in funzione del suo lavoro, negando la causalità e qualsiasi cambiamento della sua persona, positivo o negativo che sia. Il filo nascosto si configura infatti come una character driven story – una storia dove ogni azione e gesto va inteso come riverbero dell’interiorità dei personaggi.
Alma – l’eroina della nostra storia – sarà quel corpo perfetto citato poc’anzi. Colei che accetterà di entrare nel mondo straordinario di Casa Woodcock e di intraprendere quest’avventura amorosa. Insomma, accetterà, al contrario di Reynolds, la causalità; ma cara la pelle, o lo spirito, dovrà vendere Reynolds per averla. Così come Alma dovrà fare per conquistare Reynolds. C’è una Miss Danvers anche qui, per richiamare di nuovo Rebecca: Cyril, la sorella di Reynolds, il quale ruolo di “guardiana della soglia” (direbbe Vogler) del mondo di Reynolds trascenderà la storia narrata per arrivare fino a noi. Suoi infatti sono gli unici sguardi in macchina iniziale, un segnale di avvertimento lanciato allo spettatore.
Ed ecco che la complessità del cinema di Anderson, nel segno di quei rapporti amore/odio, diventa una sfida indirettamente lanciata a noi spettatori: un invito a lasciarsi sopraffare dall’immagine cinematografica che allo stesso tempo riesce anche a sedurci, come le parole iniziali di Alma, simbolo di una tradizione – la narrazione orale – che trascende qualsiasi epoca e continua a trascinarci durante la visione di un film.
FONTI (bibliografia e sitografia)
“Appetite for Destruction” (Cinephilia and Beyond): https://cinephiliabeyond.org/phantom-thread/
Production Notes: https://www.in70mm.com/news/2018/thread/index.htm
Paul Thomas Anderson advice on screenwriting (Behind the Curtains): https://www.youtube.com/watch?v=myrRBNHswfQ
Paul Thomas Anderson on Phantom Thread: https://collider.com/paul-thomas-anderson-interview-phantom-thread-daniel-day-lewis/
Paul Thomas Anderson on writing PHANTOM THREAD (American Film Institute): https://www.youtube.com/watch?v=U-ME9FRUG30
Paul Thomas Anderson “Why I needed to make ‘Phantom Thread’” (Rolling Stone): https://www.rollingstone.com/movies/movie-features/paul-thomas-anderson-why-i-needed-to-make-phantom-thread-127368/