Quanti film Disney possono annoverare di iniziare con in sottofondo una canzone dei Metallica? Nello specifico Nothing Else Matters, opportunatamente rivisitata e smussata per fare da accompagnamento sonoro mentre Jungle Cruise (trailer) ci cala nella tanto feroce quanto ancestrale Amazzonia di qualche centinaio d’anni fa. È il tempo dei conquistadores, bardati in pesanti armature mentre falciano a colpi di machete le liane di una foresta che è pronta a dare e condividere i propri segreti, ma altrettanto a togliere e privare nel momento in cui quei segreti conducono l’animo umano all’inacidirsi sotto il segno di un machismo tossico.
Madre Natura, femmina, feconda e ardita che ci catapulta nell’altro emisfero del pianeta e ci fa incontrare l’archeologa Lily (Emily Blunt), scienziata e donna nella Londra degli anni della Grande Guerra e quindi fuori dalle discussioni delle varie “royal societies”. Ma Lily è la Madre Natura all’interno di una società civilizzata che su quella natura pensa di avere diritto perché domata e opportunatamente normativizzata. Lily è anche nel solco dell’appropriazione del discorso di genere che la Disney sta tentando di mettere in ballo negli ultimi tempi (guardiamo anche a Crudelia), con nuove eroine che sanno come e quando decidere e che usano le armi come strumento di vantaggio e non di offesa.
Jungle Cruise deve però unire l’utile al dilettevole e si fionda in una caccia al tesoro ispirata all’omonima giostra nel parco dei divertimenti di Disneyland, a bordo di un battello fluviale alla ricerca dell’Albero della vita, antico e in grado di produrre dei fiori capaci di curare tutti i mali. E capitano di questo battello deve essere per forza di cose un contraltare gigionesco che non può non corrispondere alla figura massiccia ma bonaria di Dwayne Johnson (Frank), che dai ring di wrestling è oramai trapiantato stabilmente davanti alle telecamere come uno degli attori di consumo popolare più richiesti (e pagati) in assoluto.
E, a dire il vero, oramai da diversi anni. Un attore che risponde abilmente anche all’ideale scontro-incontro di significati che la contemporaneità gioca sulla figura del maschile, dove si vede contrapposto un fisico da energumeno all’abito talvolta rozzo ma gentile cucitogli addosso. La figura di Johnson è, insomma, un punto di approdo sicuro che risponde al nuovo canone Disney con perfezione millimetrica e che permette a Jungle Cruise di sbizzarrirsi e rispondere a certi contrasti (che arriveranno anche in avanti con la narrazione) con la possibilità di un’alternativa tra la figura dell’uomo di ieri e quello dell’oggi.
Alla luce di questo, il vero fulcro di Jungle Cruise è quindi il rapporto tra Lily e Frank, fatto di una discreta quanto palpabile carica erotica, giocato sul collidere di un uomo spesso fuori dal tempo, all’indietro (lui le fischia!), con una donna anch’ella fuori dal tempo, perché in anticipo (risponde a tono e indossa le “brache”). Non si risparmiano nemmeno alcune velate allusioni di carattere sessuale che riguardano il mordere bastoni o estrarre spade, in una sorta di triangolo all’interno del quale si unisce fugacemente anche la figura del fratello di Lily, McGregor (Jack Whitehall), personaggio dichiaratamente omosessuale (pure qua, ci si avvicina un po’ alla volta).
Ma al di là di un corpo centrale che coinvolge e intriga per caratteri squisitamente analitici e interpretativi, Jungle Cruise è un film semplicemente molto divertente. C’è, ovviamente, alchimia nei rapporti tra i protagonisti con i quali passiamo quasi tutte le due ore di girato, anche se leggermente a discapito dei villain come il principe tedesco Joachim (Jesse Plemons), che comunque sta a rappresentante dell’ipertrofia maschile di una modernità che si spinge a penetrare – il richiamo visivo è palese – con supponenza e violenza quella Madre Natura amazzonica con un tecnologico U-boat.
Forse i meno d’impatto in assoluto sono i conquistadores dannati di Aguirre (Edgar Ramirez), bloccati nell’eternità da una maledizione e che raccolgono a piene mani dall’immaginario della ciurma di Davy Jones dei Pirati dei Caraibi, in grado di restituire in ogni caso un paio di momenti apprezzabili seppur non propriamente indimenticabili.
Jungle Cruise, che vede in regia Jaume Collet-Serra, fa quindi dell’avventura il suo piatto forte – coerentemente con la sua origine ludica – ed è forse uno dei discorsi più stimolanti tra quelli recenti di casa Disney che vede la casa di Topolino interessarsi ai temi dell’inclusività e del dialogo di genere in ottica anche divistica. Lo fa sempre a modo suo, con tempi d’assimilazione spesso dilatati e capacità di sbilanciarsi dettata dal contagocce della richiesta di mercato, ma anche da qui passa e passerà molto. Poi un finale che ricorda per certi versi quello bellissimo di Raya e l’ultimo drago in fin dei conti non guasta affatto.