Diretto da Taika Waititi, regista neozelandese di origine ebraica autore di Thor: Ragnarok, e presentato come film di apertura della 37ª edizione del Torino Film Festival, Jojo Rabbit (trailer) non è il tradizionale film sull’olocausto, ma una satira agrodolce e malinconica che si focalizza sul punto di vista di Jojo Betzler, un bambino dolce e timido che ha come amico immaginario il suo grande idolo e punto di riferimento: Adolf Hitler, interpretato dallo stesso Taika Waititi. Jojo sogna di diventare un perfetto giovane nazista, eppure di fatto non ci sono in lui né violenza né crudeltà gratuita.
Il radicale sovvertimento di prospettiva rispetto al cinema che tratta solitamente tale tema è valorizzato e al contempo attenuato dall’uso di un linguaggio comico che ben rispecchia la deformante visione soggettiva delle giovani menti plasmate dal regime, evidenziando le incongruenze e ipocrisie della società nazista. La parte del film ambientata nel campus per giovani reclute naziste ha tanto perfino di Moonrise Kingdom di Wes Anderson. Una derisione che mira anche a scalfire l’alone di autorità del nazismo e a sottolineare la mediocrità di quella che Hannah Arendt chiamava “la banalità del male”.
Un’estetica dell’assurdo che ha il suo apice nella caratterizzazione dell’Hitler immaginario, un buffo amico di giochi che lentamente rivela la propria negatività, una voce della coscienza che in realtà è l’eco indotto e poi metabolizzato di dottrine imposte con la persuasione. Una versione caricaturale che sul finire ricorda quella del grande Charlie Chaplin, probabile modello comico anche per Taika. C’è tanta satira e ironia in questo film, ma altrettanta poesia e dolcezza. Una leggerezza che racconta con uno sguardo diverso una tematica così profonda e delicata. Siamo tra La vita è bella, film simbolo della forza trasfigurante dell’immaginazione e Il bambino con il pigiama a righe, ma in un terreno più rischioso, armato di uno humour spietato e tagliente.
Jojo Rabbit analizza come le menti siano manipolabili e la creazione di miti e storie sia determinante nella costruzione di un’identità. Il mito della razza ariana, le leggende macabre sugli ebrei, descritti come mostri con corna e attratti dalle cose brutte: una buona storia può dare al Male le sembianze del Bene e viceversa. Qui entra in campo il discorso sul genere horror, a cui il regista ha attinto considerevolmente in alcune sequenze, con omaggi cinefili funzionali ad esprimere i sentimenti di terrore del piccolo Jojo verso gli ebrei. Si percepisce anche un po’ di divertimento cinefilo, come nella citazione della Famiglia Addams, ma il punto è far comprendere la relatività dei punti di vista.
Nel delirio satirico sono inserite anche sottigliezze che rendono più tridimensionali alcuni personaggi secondari, come l’ufficiale interpretato da Sam Rockwell e il suo fidato assistente (Alfie Allen).
Un ottimo e intenso esordio per il giovanissimo Roman Griffin Davis, affiancato sulla scena da un cast di altissimo livello, che fra i tanti vede Scarlett Johansson nel ruolo della mamma di Jojo, un personaggio che rappresenta il cuore emotivo del film.
Ricapitolando, basato sul libro Caging Skies di Christine Leunens, Jojo Rabbit è una dark comedy dell’umorismo irriverente e la malinconia dei grandi drammi, un’operazione audace e riuscita, una storia toccante e travolgente con protagonista un bambino che dovrà imparare a discernere il bene dal male.