#IrishFilmFesta2025: Prima giornata

irish film festa, collettivo

Alla Casa del Cinema di Roma si sta svolgendo in questi giorni l’Irish Film Festa, festival dedicato al cinema e alla cultura irlandese. La redazione di DassCinemag ha partecipato all’evento con l’intenzione di riportare ai propri lettori alcune interessanti suggestioni delle opere viste.

GARAGE (2007; L. Abrahamson)

La sedicesima edizione dell’Irish Film Festa apre le danze con Garage (trailer) di Lenny Abrahmson, film che con la sua uscita nel 2007 ottenne un ottimo riscontro da parte della critica. Vincitore del premio come miglior film al Torino Film Festival, la seconda opera del regista degli acclamati Normal People e Room narra una storia dal sentore dolce amaro.

Protagonista è infatti Josie (Pat Shortt), uomo con difficoltà di apprendimento e relazionali che lavora in una stazione di servizio nel piccolo villaggio in cui vive. Josie vive una vita semplice e solitaria, fatta del suo lavoro, che cura minuziosamente, e di pochi momenti di evasione. Non per questo rifiuta il contatto umano: più volte si spinge a ricercare negli altri abitanti condivisione, ascolto, comprensione. Josie crede anche di riuscirci e si illude di ciò, non rendendosi conto delle norme che regolano i rapporti nella società in cui vive. Così il protagonista cade sempre più, con l’avanzare del film, in errori di valutazione dello stato d’animo, dei sentimenti e dei pensieri altrui. La sua ingenuità è malriposta in un contesto in cui Josie non riesce ad integrarsi totalmente. Questa sua pura inadeguatezza trova espressione anche dal fatto che il protagonista riesce a trovare un rapporto di comprensione e cura reciproca solo con il cavallo che vive poco lontano la sua abitazione.

Lo spettatore segue così sequenza per sequenza la routine desolante di un “ultimo” la cui condizione sociale e lavorativa ricorda molto i protagonisti delle storie di Ken Loach. Si osservano cioè con sguardo cosciente le parole e i gesti di un’incoscienza propria di un’alterità che è distaccata dall’occhio furbo e disincantato dei coetanei (e non) che lo circondano. Il risultato è un’opera di profonda tenerezza che porta a riflettere sulla possibilità di comprendere ed accogliere le diversità dell’altro ma che non si perde in una dolcezza estremizzata. La storia di Josie ha inizio fatta di poche e piccole cose che malgrado ciò sembra progressivamente continuare a perdere, dando vita un’opera dal tono amaro e consapevole.

Di Livia Minorenti.

DEAD MAN’S MONEY (2024, P. Kennedy)

Dead Man's Money

Poche cose sono più irlandesi di una giornata trascorsa al pub. In Dead Man’s Money (trailer), ambientato quasi unicamente in un bar dell’Irlanda del Nord, il regista Paul Kennedy offre al suo pubblico una commedia drammatica dai sapori folk.

Ciaran McMenamin (House of The Dragon) è Young Henry, gestore di un pub assieme alla moglie Pauline (Judith Roddy). Nonostante siano molto amati dai loro clienti, non possiedono il loro locale, ma sono alle dipendenze del burbero zio dell’uomo, Old Henry – interpretato da Pat Shortt (Gli Spiriti dell’Isola). Quando quest’ultimo intreccia una relazione con la vedova del villaggio, Pauline e Young Henry decidono di agire, temendo di perdere per sempre l’eredità per cui hanno tanto lavorato.

Il film ha decisamente un taglio da dramedy, mettendo in scena un umorismo nero tipicamente irlandese, che pervade anche le scene più intense. Se nel primo atto prevalgono toni propriamente comici, con il proseguire del racconto si vira violentemente verso quelli tragici. In questo modo, la coppia protagonista assume ruoli drammatici, da novelli coniugi Macbeth. Ma qualcosa va storto, per il loro buon cuore e le scarse abilità strategiche. La sfumatura shakespeariana, ironica e tragica, è alimentata dalla natura stessa della sceneggiatura, che nasce come pièce teatrale. Da questa il film tramanda la suggestiva suddivisione in atti e l’unica location, che instaura un forte senso di comunità, infine tradita.

In generale, la pellicola lievita lentamente, dando il meglio di sé nella dimensione tragica: è qui che si possono assaporare le conseguenze delle azioni dei protagonisti. Questi ultimi avrebbero probabilmente tratto beneficio da uno sviluppo narrativo più lungo e approfondito, reso impossibile dalla breve durata del film. Nonostante ciò, riescono comunque a comunicare con il pubblico, che ben conosce i loschi piani di chi teme di perdere la propria eredità. Come allude lo stesso sottotitolo – The Ballad of Henry, Henry and the Widow Tweed -,  il film è quasi una ballata, narrando scenari noti con un pizzico di variazione.

Di Fabrizia Catone.

IN SEARCH OF HY-BRASIL (2024, M. Danneels)

in search of hy brasil recensione

L’Irlanda è notoriamente terra di miti e leggende, dove la magia pervade ogni cosa e la natura impetuosa, che la circonda e la invade, non può essere ignorata. Uno degli esempi più suggestivi è Hy-Brasil, un’isola mitologica su cui si raccontano storie da millenni. Secondo la tradizione popolare, appare un volta ogni sette anni al largo delle coste del Connemara e, nel 2023, ha ispirato gli architetti Irlandesi selezionati per la Biennale di Architettura di Venezia.

Per l’installazione dell’Irlanda i cinque curatori hanno intrapreso un’affascinante ricerca tra le saggezze popolari, i prodotti autoctoni e i metodi isolani di rapportarsi all’ambiente. Estensione di un breve video proiettato durante la mostra, In Search of Hy-Brasil racconta il processo di preparazione dell’esposizione, mostrando l’incredibile cura ai dettagli che può scaturire solo dal vero amore per la propria terra. I cinque architetti esplorano la vita nelle isole irlandesi, dove è necessario creare una stretta collaborazione con la natura e in cui la quotidianità dei cittadini è governata dalla clemenza del vento e dalla generosità del mare. È dalla connessione con il territorio che prende forma il progetto, con l’intenzione di usare ciò che la natura fornisce e promuovendo un’idea di architettura che si adatta ad essa.

Gli architetti diventano, così, dei mediatori tra la natura e le persone, e la loro arte, fatta usando gli scarti del mare, la lana delle pecore e la pietra calcarea dell’isola, rappresenta un ponte ideale tra esse. Hy-Brasil diventa quindi il simbolo di un nuovo modo di vivere, un’isola fantastica in cui gli esseri umani esistono in reale armonia con l’universo e accettano con gratitudine i suoi doni. E’ un’utopia così vicina e possibile ma che l’uomo si rifiuta di adottare, preferendo grigie distese di cemento. 

Il documentario diretto da Martin Danneels si muove lentamente come seguendo il ritmo delle onde, cullando lo spettatore in un viaggio di scoperta tra le infinite possibilità che offre la natura a chi sa dove cercare. Nella sua commovente tranquillità, In Search of Hy-Brasil scatena il bisogno di fermarsi ad ascoltare, ad osservare, a farci guidare dal mare e dal vento, e invece di controllare e plasmare la natura, accoglierla. 

Di Miranda Rinaldi.

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