Da Magic Mike a Logan Lucky, arrivando a quest’ultimo Dog, distribuito in Italia col titolo Io e Lulù (trailer), c’è un filo rosso che attraversa la carriera di Channing Tatum e che lo configura sempre di più come l’eroe degli ultimi, cuore pulsante di un’America profonda lasciata indietro dai cambiamenti sociali e culturali dell’ultimo decennio. È il caso del protagonista Jackson, un ex ranger dell’esercito affetto da disturbo post-traumatico da stress, costretto a lasciare il servizio in seguito a un trauma cranico e a sbarcare il lunario servendo in un fast food. La sua occasione di poter tornare in azione si presenta quando si trova a dover accompagnare in un lungo viaggio in macchina un cane militare al funerale del suo addestratore. In seguito alla morte del padrone però il cane è diventato scontroso, e potrebbe essere abbattuto subito dopo la funzione.
Da questo momento in poi è facile prevedere il resto del film a grandi linee. Jackson è arrogante, un po’ egoista, tratta con sufficienza Lulù – chiamata genericamente “cane”, come vuole il titolo originale – lasciandola chiusa in macchina perché convinto della sua pericolosità. Il cane è indisponente, cerca di scappare ad ogni occasione, si sfoga violentemente sulla macchina di Jackson. Non passerà molto prima che i due si abituino l’uno alla presenza dell’altro e infine stringano amicizia.
È la traiettoria di mille altri road movie prima di questo, con il twist della specie di uno dei due passeggeri e con il merito di portare in primo piano un discorso sincero sui limiti della cultura militare, chiusa e machista, quando si tratta di affrontare un trauma e chiedere aiuto.
Certo la sceneggiatura di Reid Carolin non è esattamente sottile nell’evidenziare lo spaesamento di Jackson quando arriva in una città come Portland, dove millennial woke tagliati con l’accetta gli parlano di mascolinità tossica, white savior e multinazionali del petrolio. Molti passaggi di commento sociale finiscono purtroppo per scadere nel grottesco togliendo forza al dramma umano (e canino) del film, come avviene in una sottotrama in cui il training su base razziale di Lulù li porta ad essere accusati di crimine d’odio per un’aggressione ai danni di un uomo arabo, salvo poi essere perdonati dalla vittima stessa con qualche strizzatina d’occhio.
Nonostante questi limiti evidenti, lo sguardo di Tatum e Carolin – entrambi all’esordio alla regia – si mantiene lodevolmente trattenuto anche nei passaggi più potenzialmente a rischio di patetico della sceneggiatura. Il duo sceglie di rimanere in macchina con Lulù mentre Jackson tenta inutilmente di riavvicinarsi alla sua famiglia, non esagera con i reaction shot del pastore belga malinois, opta per un commento musicale fatto di ballad country invece che di accordi in minore in reverb al pianoforte e – grazie al cielo – non ricorre al cliché del flashback dei combattimenti durante gli episodi di PTSD.
Si arriva così a un finale in cui si ritrova la forza emotiva del racconto, e l’evoluzione dei personaggi riesce ad emergere da piccoli gesti significativi piuttosto che da lunghi monologhi edificanti. Si tratta di un’intelligenza registica di base a cui non siamo sempre abituati in prodotti medi come questo, in grado di regalare anche a una confezione così programmatica qualche prezioso accenno di verità.
Al cinema dal 12 maggio.