Abbiamo incontrato Francesca Mazzoleni, regista di Succede, Romulus II e della prossima serie Netflix Supersex, ma soprattutto di Punta Sacra, opera pluripremiata e candidata ai David di Donatello nella categoria Miglior documentario nel 2021. Abbiamo discusso con lei delle numerose iniziative sul territorio nate a partire dal film, tra cui in particolare il Punta Sacra Film Fest, la cui seconda edizione si terrà dal 30 giugno al 9 luglio 2023 a piazza dei Piroscafi (Idroscalo di Ostia) presso l’arena cinematografica realizzata insieme ad Alice nella città. Un luogo, questo, che offre un nuovo spazio di incontro in ambito artistico, con dieci giorni di proiezioni di film a ingresso libero e incontri con ospiti del cinema, della musica e dello spettacolo e vede coinvolti per i suoi sviluppi anche gli studenti della facoltà di architettura della Sapienza. In vista della produzione della sua nuova impresa cinematografica, Rebibbia 310, riscopriamo l’opera che le è valsa anche il premio Valentina Pedicini ai Nastri D’argento 2021 e per chiederle di svelarci, in anteprima, alcuni dettagli sulle novità che ci aspettano in futuro.
Da che cosa è nata la tua scelta di realizzare Punta Sacra?
È nata dalla conoscenza che avevo del posto come luogo di pessima fama. C’era un problema di comunicazione e di immaginario. Mi è venuta voglia di fare il documentario da questa necessità di riassestare il punto di vista su una zona di Roma che per me stava vivendo un enorme pregiudizio che non si meritava. Trovo molto importante che il documentario sia nato soprattutto dalla grande volontà delle persone del luogo di farlo. C’era la voglia soprattutto di una famiglia dell’Idroscalo di potersi raccontare anche per riscattarsi dall’immagine che avevano e quindi raccontarsi nella bellezza o almeno in quelli che erano dei valori che reputo molto importanti per la società di oggi, come il saper vivere in comunità. All’Idroscalo di Ostia ho trovato una serie di famiglie che si aiutavano a vicenda che è la pura espressione del vivere comunitario, che è una cosa molto rara, che vorrei ritrovare in ogni quartiere di Roma, e invece nelle zone più in difficoltà spesso è qualcosa potente che esiste.
Cosa significava per te intraprendere un viaggio simile alla scoperta dell’Idroscalo?
Cinematograficamente era un luogo che mi offriva delle possibilità anche di racconto profondamente complesse, perché è un luogo che rischia di non esistere più per interessi commerciali che da anni stanno mettendo a rischio tutta la comunità che tuttora vive lì. E questo è stato il motivo maggiore: provare a usare il cinema per tentare di avere un impatto sulla realtà delle cose. Avevo questa visione per cui facendo questo lavoro ci sarebbe accesa una luce diversa su questo luogo e avrebbe cambiato l’idea che c’era sull’Idroscalo e in qualche modo l’avrebbe potuto salvare. Sembrava un’utopia totale. Però qualcosa in realtà è stato fatto.
Ci sono stati, a tuo parere, dei risultati effettivi?
Ci sono stati dei risultati. Con le istituzioni è molto complicato perché è sempre difficile entrarci in contatto. Però a livello di cambiare una percezione sul luogo addirittura adesso i giornalisti chiamano l’Idroscalo di Ostia “Punta Sacra”, lo abbiamo battezzato noi con un film. Quindi rivalutare una zona con accezione nuova quella è una delle cose più belle, cioè significanti proprio che siamo riusciti a fare.
A tal proposito: che origine ha l’espressione “Punta Sacra”? La usavano già in precedenza i suoi abitanti?
È nata un pomeriggio in cui stavo con una delle protagoniste, Franca Vannini, ovvero la “nonna” dell’Idroscalo, una donna molto attiva all’interno della comunità. Un giorno mi ha portato proprio alla Punta della foce del Tevere, che è a forma di triangolo se lo osservi all’alto. Dove il Tevere incontra il mare si crea questa punta di terra e lei mi ha detto: «guarda questo è il luogo dove io piango, dove penso, dove io mi chiudo un po’ in me stessa ed entro in contatto con me stessa. È il mio luogo sacro». Stavo proprio sulla punta, con le onde del mare che si infrangevano sugli scogli e ci bagnavano e il Tevere che scorreva placido lì a fianco, uno spettacolo bellissimo e mi è venuto da dire: «è una punta sacra». E… «sì è la mia punta sacra», mi ha risposto. Abbiamo il titolo del film!
È giusto a tuo parere definire questo documentario “politico”?
Sì. Diciamo che l’intento è politico. Molti l’hanno definito «poetico e politico» e secondo me la poesia in questo racconto è la forma di politica che è stata scelta, perché mostrare la bellezza di un luogo che vogliono distruggere è il modo per creare una resistenza. Se vedi il documentario non ci sono dei lunghi discorsi politici dentro, però l’intento lo è, perché chiaramente prendo una posizione molto forte di difesa dei diritti umani inalienabili. Non si tratta neanche di politica legata ad un’istituzione piuttosto che a un’altra, perché il piano sull’Idroscalo, alla fine negli anni è rimasto sempre lo stesso a prescindere da chi fosse al potere, è proprio un “ricchi vs poveri” ed è la storia dell’umanità. Per me il diritto di abitare, ascoltando anche le esigenze di chi vive nei luoghi e li conosce meglio di chiunque altro, è qualcosa che si dovrebbe preservare in ogni modo e il film parla molto anche di questo. Anche se non lo fa direttamente, però sì è molto politico.
Nella realizzazione del documentario si può dire che sei stata tu a vedere dove ti portava la storia piuttosto che in qualche modo guidarla?
Sì, però gran parte della mia visione era quella di permettere alle persone che non avevano voce di averne una. Quindi in questo senso è una visione politica. Perché se avessi messo la mia voce in bocca a quelle persone sarebbe stato per me completamente sbagliato. Se vai a lavorare in questo tipo di territori c’è sempre qualcuno che mette qualcosa in bocca agli altri o che non dà voce a chi ha meno possibilità di avere gli strumenti per esprimersi. Io parlo soprattutto di una sintesi che è avvenuta tra quello che era la mia visione maturata negli anni sul luogo e sulle persone e lo sguardo delle persone che avevo incontrato, che mi hanno aiutato a capire la realtà dal di dentro.
La preparazione è stata molto lunga: ormai è parte anche della tua storia personale?
Sì, assolutamente. La cosa interessante è stata che gli anni in cui ho avuto modo di conoscere la comunità sono stati tantissimi, quasi otto. In tutti questi anni non avevo l’idea di fare un documentario. Conoscevo il posto perché ero entrata in contatto con loro e dopo otto anni mi hanno chiesto di fare un film là; quindi, è stato interessante perché già ero legata al luogo senza un interesse creativo, ma perché mi ero innamorata di quello che avevo trovato lì. Tutto questo tempo mi ha permesso di avere la fiducia delle persone, che è la cosa su cui bisogna lavorare di più quando si fa un documentario. Ed è complicatissimo, non tutti ovviamente hanno aderito al progetto e per quanto il tempo passato lì sia stato tanto rimaniamo sempre stranieri. Però è rimasto nella mia vita perché non ho tagliato il cordone con il posto. Ho cercato di prendere tutto ciò che mi è ritornato dal documentario e provare ad usare il successo che ha avuto il film per restituire qualcosa al luogo. È il motivo per cui dall’anno scorso abbiamo fatto un’arena cinematografica sul luogo e la faremo pure quest’anno.
Cosa significa per te l’arena cinematografica?
È stato un punto di arrivo inimmaginabile. L’arena è stata costruita proprio di fronte allo spazio dove c’erano le 35 case che hanno demolito. C’era questo enorme spazio rimasto vuoto da 13 anni. L’arena è una realtà fisica e culturale che porta persone nel luogo: è l’ultimo tassello di quello che mi auguravo che accadesse, ovvero l’abbattimento di un po’ di barriere. Significa lasciare qualcosa di fisico che sia una specie di “zattera della cultura” dove le persone si possono incontrare, parlare, conoscere perché vadano all’Idroscalo non solo per il turismo della “diversità”, ma per vedere un film tutti insieme.
Quali sono le prospettive future legate all’arena?
Con l’arena stiamo creando un incontro tra i giovani creativi e le persone dell’Idroscalo. Facendo lavorare i ragazzi dell’Idroscalo sui film scelti, quindi si è creato qualcosa che li ha resi anche attivi dal punto di vista organizzativo sul loro territorio. Sono contenta dell’appoggio di realtà come quella della Sapienza e del dialogo col vostro giornale. Il fatto che dal punto di vista culturale ci sia stata una risposta è una grande conquista. Gli studenti della facoltà di architettura, in particolare del Laboratorio Integrato di Design e Rappresentazione e quello di Design and Rappresentation Studio, hanno lavorato con i loro docenti al progetto dell’arena e hanno immaginato delle possibilità anche di futuro del luogo che andremo ad esporre durante il Festival. Mostreremo tutti i loro progetti. Questo per me è stata una cosa stupenda: vedere tanti giovani creativi che iniziano a pensare a dei futuri possibili e praticabili in realtà come quella dell’Idroscalo. Quindi a livello propriamente politico no, ma dal punto di vista culturale si è creato un movimento, e spesso si parte proprio da lì.
A Punta Sacra hanno delle sale cinematografiche?
All’Idroscalo non hanno neanche una farmacia o un supermercato. Sono proprio tante piccole case che costituiscono un borghetto autocostruito nel nulla. Devono prendere la macchina ogni volta per andare a prendere i beni primari. La sala cinematografica più vicina è una multisala, quella di Ostia. L’Idroscalo non ha niente, infatti quello che loro chiedono è avere un minimo, anziché buttare al suolo tutto, qualcosa per vivere là serenamente e in modo ecologico, senza ritrovarsi in palazzoni di cemento.
Pensi che sia possibile tra molti anni un tuo ritorno con la troupe in quella terra per raccontare quasi un sequel di queste storie e mostrare cosa è successo anni dopo?
Io tornerò sempre. Lavorativamente… chissà. Per adesso direi di no. Dipende da che cosa succede nel posto perché o torno con un’enorme tristezza nel cuore, perché sono state fatte delle scelte disastrose per la zona, o torno per raccontare qualcosa di molto bello, che è quello che spero. Però spesso mi viene di tornare per fare qualcosa. La voglia di racconto non si esaurisce mai, bisogna sforzarsi. Quando filmavo darmi uno stop è stato difficilissimo, perché le vite vanno avanti e quindi ci stanno sempre eventi che hai voglia di raccontare.
Le istituzioni in qualche modo hanno riconosciuto la validità del tuo lavoro, data anche la candidatura ai David.
Diciamo che attivamente non c’è stato un dialogo molto vivo. Spero che la situazione nel futuro prossimo cambi. E ci sia un coinvolgimento e un dialogo più attivo, soprattutto con gli abitanti del posto. La nascita dell’arena è stata invece un prezioso tassello all’interno di un progetto molto importante che stiamo portando avanti. Però è paradossale quello che dici giustamente tu: abbiamo ricevuto dei riconoscimenti culturalmente tra i più validi di quelli che ci sono in Italia e pubblici. Ma è come se ci fosse sempre un enorme muro, tra politica e arte, bisognerebbe romperlo e riconoscere il ruolo di chi fa arte in questo paese nella sua funzione sociale e politica. Il cinema è di per sé politico, anche quando non tratta temi politici. Parla alla folla in modo trasversale. Ha il potere di creare comunità.
La distribuzione di questo film ha goduto di un dettaglio che definirei magico: è stato proiettato più volte all’Idroscalo nei luoghi in cui è stato girato. Quali sono state le reazioni dei protagonisti del film quando si sono rivisti sul grande schermo?
Il film ha funzionato da specchio nei confronti delle loro vite e per la prima volta, mi hanno comunicato tutti: «è la prima volta che non ci sentiamo giudicati, ma ci sentiamo amati». Perché la risposta del pubblico che è tornata a loro è stata di enorme affetto. Settimane e settimane di messaggi di ringraziamenti «perché vi abbiamo conosciuto», «perché vi abbiamo amato e ci avete insegnato qualcosa di prezioso». Molte persone dopo aver visto il film sono andate nel luogo per conoscere i protagonisti.
Recentemente hai diffuso l’immagine di un tatuaggio con scritto «La tua invidia è la mia fortuna» e la didascalia «Rebibbia 310». Hai deciso di realizzare un nuovo documentario su un’altra zona di Roma?
Rebibbia 310 è il mio nuovo documentario, non ne ho ancora parlato spesso. Inizierò a girare tra poco. È sul carcere femminile più grande d’Europa, che è a Rebibbia. Vado sempre a cercare dei contesti comunitari dove le regole della vita sono diverse da quelle a cui siamo abituati. Quindi sono tutte delle possibilità per abbattere dei pregiudizi che possiamo avere su un certo tipo di mondo. Questo racconto non si preoccuperà dell’aspetto crime che ha a che fare con le vite delle donne protagoniste, ma troverà un’immedesimazione emotiva su quelli che sono i loro sentimenti, le loro relazioni umane e quella che può essere la condizione di totale assenza di libertà, che spesso è anche assenza di identità, cioè perdita della propria identità. Quindi sarà un racconto molto filosofico da questo punto di vista.
Come ti sei preparata finora per questo nuovo viaggio che intraprenderai?
Ho già iniziato a fare molta preparazione nei mesi passati, incontrando molte donne dentro. Molte hanno tanta voglia di fare questo viaggio insieme, anche in questo caso sarà importante dare voce in un contesto dove spesso è difficile o viene tolta.
La scelta dell’immagine con il tatuaggio ha un significato particolare?
Ho fatto tantissime foto ai tatuaggi delle donne che ho incontrato. Quella che ho pubblicato era di una delle donne che saranno protagoniste del film. Per non perdere la propria identità, ogni volta che afferrano qualcosa di importante nella loro vita se lo tatuano. Sia dentro la cella che fuori, è anche un modo per ricordarsi le cose importanti. Non so se diventerà forse anche un progetto fotografico. Ho scelto quel tatuaggio anche per non mostrare il volto di una delle protagoniste, ma per annunciare l’inizio del progetto.
Come è nata l’idea per questo nuovo documentario?
Mentre stavo al Centro Sperimentale avevo fatto un progetto al carcere di Sollicciano, a Firenze, dove avevamo girato per una settimana un documentario diciamo molto classico con delle interviste, in co-regia con altri miei colleghi di regia. Quando ho passato quella settimana dentro ne sono uscita che ero una persona totalmente diversa. Quindi mi ero ripromessa che se ci fosse stato modo sarei tornata in quel contesto lì. Che da una parte artisticamente è molto battuto perché i film e le serie sul carcere sono quasi un genere, però è anche un grande rimosso della nostra vita allo stesso tempo. Magari ci piace di più in modo voyeuristico vederci una serie sui “criminali”, perché è un mondo che non ci appartiene ma ci incuriosisce, e quello è un modo per segnarne la lontananza. Però fare un documentario in cui invece ti immedesimi, ha una complessità diversa, che mi interessa.
Hai avuto esperienze di successo nel cinema di finzione, nelle serie tv e nei film documentari. Quali di questi tre settori preferisci? Nella tua carriera hai intenzione di concentrarti su un solo genere di prodotto o trovi interessante realizzare opere molto eterogenee tra loro?
Continuerò, senza darmi troppe etichette. Ci sono tanti tipi di linguaggi diversi che, se sai padroneggiare, ti ampliano semplicemente la possibilità di raccontare più storie. Come criterio mi sono data quello di scegliere delle storie a cui tengo e che abbiano un senso anche etico, che è una cosa molto importante per me. E se la forma migliore è documentaristica, piuttosto che seriale o filmica, dipende dal contenuto. Penso che proprio sia una grande ricchezza, almeno per me, avere una possibilità di scelta. L’unica cosa importante, specialmente per noi giovani che abbiamo tanto da dire, è non perdersi nel “lavoro per il lavoro”, ma continuare a interrogarsi sul presente, a coltivare la nostra voce. Infine, aggiungo che, oltre al documentario, il mio prossimo film potrebbe essere un horror.