A ridosso del cinquantennale della scomparsa di Totò, grazie ad alcuni studi portati avanti negli ultimi anni, si svelano i luoghi comuni che per anni hanno a lungo contraddistinto l’immagine del comico. Abbiamo chiesto a Ennio Bispuri, biografo e studioso della cariera e della vita di Totò, quali sono le fonti e le testimonianze che ha utlizzato nel suo lavoro?
Ennio Bispuri: Innanzitutto [ho studiato Totò] da un punto di vista biografico. Io ho scritto cinque libri su Totò e ho avuto informazioni dirette, dalla figlia, da Franca Faldini, Carlo Croccolo, Monicelli, per fare un discorso biografico bisogna avere le fonti giuste, altrimenti si inventa. Ho riscontrato da tutti, a cominciare da Croccolo, che Totò non improvvisava, come si suol dire. Qualche volta introduceva cose nuove che non erano nel copione, ma raramente. Il sistema di Totò era quello di riunirsi nel camerino con la sua spalla, o a volte due, e rivedevano la parte cosi come era scritta sul copione. Lui prima la “immedesimava” da capocomico e poi la interpretava. Era un figlio della commedia dell’arte, però era anche molto disciplinato. Quindi non è vero che si abbandonava ad estri estemporanei. Questo dell’improvvisazione è un luogo comune che desidero ribadire ancora una volta che non è vero.
Infatti da come si può notare da alcuni ciak “doppi” finiti nei trailer del film, sono presenti solo alcune lievi variazioni di battute, ma non di tutta la frase
Sicuramente c’è un aspetto interessante che aveva ribadito Monicelli. Che Totò, da attore teatrale qual era, non amava il cinema! In esso vedeva un elemento freddo, una cinepresa, non c’era il pubblico, l’odore del teatro, etc. Questo discorso Monicelli lo aveva capito, quando infatti faceva recitare Totò sul set diceva alle maestranze “fate l’applauso”, in modo che lui avesse la sensazione di stare a teatro. Questo caricava Totò.
Partiamo dal Totò teatrale, quello cinematografico anni ’20 e ’30. Dagli ultimi studi condotti è possibile stabilire se sia stato molto diverso da quello che poi abbiamo visto sul grande schermo?
E.B.: È una domanda molto bella. In fondo noi abbiamo due Totò, uno quello teatrale che arriva fino al 1937 e anche dopo, però forse si ferma proprio in quell’anno quando comincia a recitare per il cinema. Ci sono però analogie e differenze. La base clownesca di Totò che io riscontro come suo sesto registro recitativo (sono sei infatti) è presente sia nel Totò teatrale che in quello cinematografico. Quindi l’attore funambolico, che nasce addirittura negli anni ’10 con le staccate, le periodiche nei piccoli teatri di Napoli, che lo porta anche ad essere una marionetta, si ritrova anche nel Totò cinematografico ma non in tutti i film. Ovviamente abbiamo “Totò a colori” o “Animali pazzi” dove egli è una marionetta straordinaria. Poi la sua statura cresce e diventa un attore vero e proprio, che supera la marionetta e dà luogo a personaggi concreti. Però l’analogia c’è sempre: non sono due Totò, due persone diverse, è uno sviluppo progressivo, anche legato ai tempi, in cui il personaggio ne diventa un altro.
Nel 1937 arriva il cinema, “Fermo con le mani”, una commedia graziosa ed elementare non indegna di Laurel & Hardy o Charley Chase, e del primo cinema comico sonoro americano. Il trapasso col cinema di Totò è più vivace e elementare, meno faticoso rispetto a quello degli altri comici dell’epoca.
E.B.: È una precisazione molto raffinata. Anche il confronto con lo slapstick appunto, e nel film c’è, specialmente nell’episodio della lunga fuga con Franco Coop. Il dominio assoluto internazionale nel ’37 era ancora di Chaplin, anche se il sonoro ormai lo aveva ridimensionato. Ma il numero uno assoluto era lui. Non dimentichiamo che quando Totò comincia a creare il proprio personaggio attorno agli anni ’20 quando lui ancora si chiamava “Clerment” (dal suo cognome Clemente) si veste come Chaplin, con la bombetta e il bastone. Se avesse avuto i baffetti sarebbe stato simile. Lo stesso nome “Totò” riecheggiava “Charlot”, lo sceglie anche perché era assonante con questi.
Ovviamente si parlava di un Chaplin ancora come pura marionetta che come cineasta, ancor più interessante notare che al contrario Totò non è mai regista di sé stesso, ma sarebbe divertente sottolineare questo, come mai non tenta mai di andare dietro la macchina da presa?
E.B.: E lui lo ha anche detto. Lui ha fatto anche il produttore con il genero Buffardi (la DDL). Però non ha mai voluto auto-dirigersi perché affermava (sembra una banalità) “sono pigro, non ce la faccio, io continuo a fare l’attore”. Cosa giusta da notare, perché mentre Chaplin creava la storia, la sceneggiatura, le musiche (il film era assolutamente suo) Totò era un attore, non inventava nemmeno le storie, rarissime volte lo ha fatto, come in “Siamo uomini o caporali”. Era un attore puro, non gli è mai venuto in mente di dirigersi. Quest’aspetto è importante perché ci permette di vedere meglio la differenza con Chaplin, e su questo sono stati scritti libri interi. Io stesso ne ho parlato con Renzo Arbore e anche con Croccolo. Ci sono vari partiti: alcuni dicono ovviamente che è superiore Chaplin; a me non piace molto fare questi accostamenti, sono giganti tutti e due. Però per noi italiani Totò è un mito, e perché? Perché rappresenta un espressione profondamente italiana e napoletana. In Cina e in Giappone non lo capirebbero. Totò è l’espressione di quel mondo, il mondo che viene dalla commedia dell’arte, da Pulcinella, dal sottoproletariato napoletano. Tutto questo è sintetizzato nella figura del comico, ma non si può esportare all’estero. Prima di tutto c’è il problema del doppiaggio – me lo hanno chiesto anche nella trasmissione della RAI “Il nostro Totò” – “Come mai Totò non è valutato all’estero?”. Invece è stato doppiato in tante lingue, ma quando lo vedo doppiato spengo il film, perché non è più lui.
Lui stesso ha citato il celebre episodio di “Totò sceicco” doppiato in francese visto in un cinema di Nizza…
E.B.: Certo! “Guarda Omar quant’é bello!” risultava una stupidaggine: “Regardé la mer que c’est belle!”. Nessuno ride.
Lei ha giustamente citato che la differenza tra Chaplin e Totò sta nella padronanza del film. Io penso che la differenza tra il Chaplin teatrale e il Totò teatrale sia ancor più accentuata: mentre il primo interrompe la sua carriera teatrale con il Vaudeville, che corrisponde al nostro Cabaret/Avanspettacolo, Totò ha compituto una profonda maturazione nel teatro, arrivando a essere riconosciuto anche da profani come attore di teatro completo. Questo grazie anche alle riviste degli anni ’40 curate da Michele Galdieri. È importante quindi chiedersi se questo percorso è stato benefico per la sua futura carriera cinematografica?
E.B.: Senza dubbio. Ma il problema sa qual’é? Di recente sono stati fatti degli studi anche sul periodo teatrale – come quelli di Fofi – ma manca tutto, non sappiamo dove mettere le mani. Del periodo di Totò del 1932/33 non sappiamo nulla. Io ho provato a ricostruire (ci ha provato pure Alberto Anile) tutti i passaggi ma non è una cosa facile. Quello che noi sappiamo, attraverso le critiche dei giornali, è quello che Totò era sulla scena: ci sono testimonianze di Ramperti, Sarazani e altri. Di quello che era fuori dalla scena, che noi non lo possiamo rivedere, non ci sono testimonianze filmiche, a parte qualche spezzone. Ad ogni modo, lui ripropone nei film le macchiette come il Bel Ciccillo in “Siamo uomini o caporali”, come un simbolo di un mondo scomparso. Lo proponeva lui, ma a sua volta l’aveva preso da Gustavo De Marco, il suo maestro. Ricostruire punto per punto la sua carriera teatrale rimane uno sforzo filologico forte. Quello che ne rimane è che il pubblico teatrale nel quale si è formato, anche se non completamente, è stato poi metabolizzato nel cinema, poco per volta e in forme diverse.
Il periodo da Grande Attore di Totò (1947-1956) risente delle logiche produttive dell’epoca: la canonicità schiacciante delle logiche produttive del nostro cinema, ma anche lo scarso apprezzamento dei critici nei confronti dei suoi film. Quanto pensa possa aver influito ciò sul Totò artista?
E.B.: Totò aveva una strana teoria, non sappiamo quanto guadagnasse ma in questa situazione Ponti e De Laurentiis si sono davvero arricchiti! Lui prendeva poco, in quanto faceva questo ragionamento: “Prendo un compenso basso, così mi richiamano a lavorare, i produttori sono soddisfatti e mi richiamano, in modo che io non resto senza lavoro”. Strano, ma ha un suo significato: spesso firmava contratti per film molto mediocri, lo sappiamo.
Questo si riallaccia al discorso del doppiaggio: puntavano molto di più sul dialogo piuttosto che sull’azione, che all’epoca era uno dei punti base del cinema muto e d’autore. Questo ha aiutato l’attore a configurare emozioni più sul livello visuale?
E.B.: Certo, la scelta che poi facevano è questa! Ad ogni modo Totò non aveva un grande amore per il denaro, si dice che spendesse, non risparmiasse e questo lo portava anche a fare dei lavori mediocri. Quello che però lo storico dovrebbe fare al giorno d’oggi è quello di riuscire a separare l’attore, ovvero questo nostro “Charlot italiano”, dai film che ha fatto. Alcuni sono dei capolavori, altri no. Non bisogna valutarlo sempre dai film. Il punto è che poi Totò diventando cieco esaspera la sua produttività. Aveva paura di non lavorare più! Diceva alla Faldini: “Io non lavorerò più” – e invece gli faranno fare anche dei capolavori. Nessuno si accrose che lui era cieco! Mi è capitato di dover discutere, in una conferenza a Lisbona, con un italiano che mi diceva: “Ma cosa dite, che Totò era cieco? Vedo che si muove con una scioltezza incredibile!” E io dissi “Questo è un miracolo di Totò”. Io continuavo a assicurare che Totò fosse quasi cieco, ma lui si rifiutava, non riusciva a crederci.
Si dice che riuscisse anche a guardare la televisione con i bordi degli occhi, ma ovviamente questo ha portato Totò ha prestare molta attenzione alla sua salute.
E.B.: Ci sono due cose: una è la famosa intervista di Bersani (1963). Gli dice: “Se la guardo dritto così la vedo senza testa”. L’altro aneddoto è quello che fornisce Federico Fellini, una valutazione preziosa. Fellini non ha mai diretto Totò proprio perché affermava: “Ma che lo metto a fare nella storia del film. È lui la storia!” Racconta che si è trovato in uno studio dove facevano il doppiaggio e Totò recitava lì. Fellini guarda questo personaggio cieco che veniva accompagnato per mano e al quale spiegavano come doveva muoversi. Poi parte il ciak e Totò parte come un folletto! Fellini disse: “Non potevo crederci che uno cieco potesse muoversi in quel modo”.
Potrebbe essere stata una “favolizzazione” del maestro riminese?
E.B.: Io ho scritto due libri su Fellini ed ero suo amico, mi dica quello che vuole (ride)
Volevo tornare su un altro punto: molti hanno ipotizzato che Totò diretto da Fellini perdesse il suo ego. Probabilmente un cineasta come lui potrebbe aver soppiantato l’egocentrismo del comico. Lei è d’accordo?
E.B.: Si, ma è d’accordo Fellini, lui stesso diceva questo. “Io non lo posso dirigere, che faccio, lo metto li si muove e il film è fatto?” La storia è lui, il suo modo di essere.
Proprio il modo di Fellini di vedere i personaggi dal basso, in una dimensione quasi barocca, molto più raffinata rispetto a quella di Pasolini, avrebbe invece potuto essere benefica per il personaggio di Totò?
E.B.: Non posso che essere d’accordo. E rimpiango questo fatto. Perfino Visconti lo voleva dirigere, anche Bolognini. Tutti si sono rivolti a lui, perché vedevano in lui un immenso attore. C’é anche l’interessante aneddoto della cena, che mi è stato raccontato dalla Faldini parola per parola: Totò avrebbe voluto essere diretto da Fellini, era il suo desiderio profondo. Un giorno Giulietta Masina chiama a casa di Totò (risponde la Faldini) e sono invitati cena da Fellini. Totò era convinto che era stato interpellato dal regista per fare un film. Entusiasta addirittura gli dice “siete diventato un registone”. Parlano per tutta la cena ma finisce li! Totò torna a casa tristissimo. Fellini lo aveva voluto a cena solo per una formula di cortesia, ma non per fargli girare un film. Quindi questo film mai girato di Fellini con Totò ci rimane dentro a noi amanti del Principe. Ma Fellini diceva appunto: “Io non posso girare con lui, è antropologico, rappresenta tutta la nostra cultura, ma non so cosa inventare per lui…”
Passiamo all’ultima fase della carriera di Totò, dal 1958 fino alla sua morte. La qualità della sua produzione cala rispetto al periodo di Steno e Monicelli, però è contraddistinta da una diversità di generi e finalmente c’è posto anche una riscoperta da parte di ‘autori’. A mio avviso è la fase di carriera più multiforme, variegata e affascinante mai affrontata da un attore italiano.
E.B.: Sono anche in questo caso molto d’accordo, con una piccola osservazione. Tuttavia in questi nove anni, anche a causa della cecità di Totò, egli accetta di fare molti film da non protagonista, o addirittura per piccoli episodi. Prendiamo ad esempio “Operazione San Gennaro” di Dino Risi. In questo film lui fa solo cinque pose, l’attore principale è Manfredi. Questo ci dimostra – il film incasso comunque due miliardi – che anche se avvenivano questi trionfi e riscoperte si avviava verso il tramonto. C’è anche da dire (questa cosa l’ho studiata e l’ho discussa in un convegno a Napoli) che c’è una flessione fortissima degli incassi e dei numeri di biglietti venduti. Se andiamo a prendere proprio il periodo del 1961/62 comincia a decrescere l’attenzione del pubblico per Totò. Ci poniamo allora una domanda: potrebbe essere stato ridimensionato alla fine della sua carriera dalla televisione? Nel periodo della televisione di massa (ovviamente la metà degli anni sessanta) questa ha praticamente fagocitato l’interesse popolare per Totò. Questo è un dato di fatto, lo ha ucciso. Ma se Totò non fosse morto nel ’67 sarebbe andato verso il sessantotto, verso gli anni del terrorismo e sarebbe allora stato ucciso completamente da tutto ciò.
Ma forse mai dimenticato?
E.B.: No, no. Tanto è che ancora oggi è un mito. Dico questo perché la grandezza di Totò sarebbe stata offuscata, meno male che è morto prima di tutto questo. Totò nel Sessantotto non interessava più a nessuno: la televisione che avanzava, il clima politico, etc. Non vivevamo più il personaggio di Totò che invece esprimeva un mondo diverso.
Però Eduardo è sopravvissuto a tutto ciò. Come ha fatto?
E.B.: Ma è un’altra cosa. Giusta l’osservazione ma c’è anche la risposta. Innanzitutto si esprimeva in un contesto diverso, sopratutto come autore.
Magari la cinefilia degli anni ’70 gli avrebbe dato più spazio creativo, non penso sia sbagliato immaginare un Totò ultrasettantenne curatore dei suoi lavori.
E.B.: Ma ovviamente qui siamo nella fantascienza. Eduardo, certo, è morto nel 1984 quindi ha attraversato quel periodo: il rapimento di Moro, etc. ma in fondo lui non è stato intaccato da questo, in fondo un autore che scrive “Filumena Marturano” può attraversare qualsiasi fase, ma la comicità di Totò, per esempio di “Fifa e arena”, non avrebbe avuto più senso in quegli anni. È resuscitato questo interesse solo dopo la sua morte con la TV perché si è imbalsamato in un mito. Questo mito è intoccabile, potrà durare anche duecento anni. Eduardo e Totò sono due egemonie diverse, non omologabili. Totò vive in quella dimensione lì mentre De Filippo vive in un’altra, più vicina al clima degli anni di piombo.
Un’ultima parola la diamo ai film televisivi “Tutto Totò” (1967).
E.B.: Si, di Daniele D’Anza. Quando vedo quella roba lì mi viene proprio la tristezza.
Però ci sono anche dei piccoli gioielli in quegli episodi!
E.B.: Assolutamente! Però il discorso è complesso: lì vediamo un Totò recuperato da vecchi sketch, diventato vecchio, minestra riscaldata. Ci sono ovviamente dei gioielli qua e là, dove viene presentato un personaggio vecchio stile con il frack, etc. Ovviamente ci sono momenti felici ed ebbe un audience strepitoso! A 18 giorni dalla morte (lo special venne girato poco prima della sua scomparsa) viene mandato in onda il programma ed erano tutti incollati alla televisione.
Divertente comunque pensare che Totò con la Tv ebbe nuovo audience, lui sotto nuovi esperimenti suscitava sempre curiosità, dal Totò “a colori”, da quello in 3D de “Il più comico spettacolo del mondo” fino a quello da speciale televisivo.
E.B.: Infatti la mia tesi è questa: ripeto che Totò non dico sia stato ucciso, ma quasi soffocato dalla televisione degli gli anni sessanta e contemporaneamente la stessa televisione lo ha resuscitato. Ancora oggi apriamo Sky e vediamo ogni giorno quattro/cinque suoi film. Questo mezzo che infatti lo stava annebbiando, in seguito lo ha rimesso in auge e il mito continua. Oggi giriamo per la strada, tutti sanno chi è Totò, tutti lo adorano.
Dove risiede secondo lei la più alta angolazione della mimica del grande attore napoletano, quella della “Totòmania”, quella che lo ha consacrato alle gradi platee cinematografiche?
E.B.: L’aspetto mimico di Totò ha dietro le spalle due cose: una più vicina, l’altra più lontana. La Commedia dell’Arte, perché da lì parte la tradizione di Pulcinella, da Petito a Scarpetta. Questa è quella più vicina perché parte dal Seicento. Poi un’altra molto più lontana. Quella del Teatro Latino, dei Fescennini, del teatro romano. Nel mondo Osco dell’Italia centro-meridionale i primi embrioni di commedia satirica contro i potenti. Questa mimica che poi viene ripresa per la Commedia dell’Arte e trasformata per il teatro di Totò viene quindi riproposta anche per il suo cinema. Quindi vi è tutto un cammino di trasformazione, dai Fescennini a Scarpetta. Lo stesso personaggio Sciosciammocca della trilogia di Mattoli ci fa capire che Scarpetta ci propone un Pulcinella praticamente imborghesito. Addirittra ne “Il medico dei pazzi” Sciosciammocca è il sindaco di Roccasecca. La sua domanda ad ogni modo è complessa, ci vorrebbe forse un paragrafo preciso. Alla fine di tutte queste indagini la personalità imprescindibile di Totò, al di là di tutto quello che potremmo dire, non ci può far prescindere dal fatto che siamo di fronte ad un uomo geniale. Non basta spiegare il teatro romano, magari sono cose diverse. Totò supera tutti. I comici vicini al suo modo di essere a confronto sono tutti nanetti, con tutto il rispetto, io adoro Fabrizi, etc però Totò è sempre al di sopra. Quindi, la risposta alla fine la troviamo qui: nel DNA di quest’uomo, di questo grande attore, che ha assorbito tante lezioni, ma che però poi è stato lui. Unico e irripetibile.
Intervista realizzata da Gianmarco Cilento