«Se riescono a raggiungerla solo alcune persone non è felicità» confida con delicatezza la preside Fushimi a Minato. Hanno appena confessato l’un l’altra di aver mentito per proteggere se stessi e la loro posizione. Se entrambi, in particolare il bambino, fino a quel momento sembravano imperscrutabili o incoerenti, qui si lasciano andare ad un dolce momento di sfogo, soffiando nella tromba e dando vita a suoni che dovrebbero essere sgradevoli, ma che sono invece una passeggera e aggraziata boccata d’aria. E ancora «Ci sono cose che non posso dire a mio padre» sostiene Eri, l’alieno, come lo chiamano i compagni di classe, il mostro col cervello di un maiale. «Neanche io a mia madre» risponde Minato. L’innocenza (trailer) sembra cominciare dalla solita, ma non per questo banale o poco efficace, struttura-confort, finché la narrazione non muta in un intricato gioco di vergogna e di impotenza, di dubbi e di paure, che intensificano e rinnovano il discorso sui legami familiari tanto caro a Hirokazu Kore’eda, aggiungendo così un ulteriore tassello a questo suo lungo studio sulla società Giapponese e non.
Un edificio che prende fuoco è una virgola alle tre storie, ai tre punti di vista in cui il racconto è suddiviso: il primo su Saori, la madre di Minato, che crede il figlio una vittima dei soprusi del violento professor Hori, la seconda dedicata all’insegnante, e infine la terza sui due bambini, Eri e Minato. Nonostante i fugaci incontri, la sezione dedicata al mondo adulto e quella interessata all’infanzia convivono separatamente. Riecheggiano nella prima metà i toni più misteriosi respirati ne Il sospetto di Thomas Vinterberg o ne La sala professori di İlker Çatak, poi, nella seconda parte, L’innocenza si scarcera dai vincoli narrativi liberandosi a un flusso di suoni e immagini trasparenti e sincere, più vicine alle atmosfere e agli argomenti affrontati nel Close di Lukas Dhont o in alcuni film di Céline Sciamma.
Il film è stato presentato in concorso alla 76° edizione del Festival di Cannes, scritto da Yūji Sakamoto – Kore’eda non metteva in scena una sceneggiatura scritta da altri dal suo debutto, Maborosi nel 1995 – e arriva successivo ad una parentesi estera, prima in Francia nel 2019 con Le Verità, poi in Corea nel 2022 con Le buone stelle – Broker. L’innocenza sembra così voler ritrarre un nuovo e significativo cambiamento strutturale – forse breve, chissà se unico – per il cineasta che rimane in ogni modo legato alla memoria di un cinema – suo e di altri – passato.
Kore’eda racconta l’infanzia da oltre trent’anni; ha iniziato come documentarista con Lessons from a Calf (1991), dove in una scuola elementare viene avviato un progetto sperimentale: l’allevamento di un vitello da quando è piccolo fino all’età adulta. I bambini imparano a prendersi cura dell’animale, scoprendo così il significato del tempo che scorre. I temi affrontati nel documentario verranno ampliati e applicati anche nelle “sceneggiature di finzione”, forse ancor più minuziose nel descrivere il mondo dell’infanzia. Da Nessuno lo sa (2004) nel quale Keiko lascia a casa da soli i suoi quattro figli per fuggire con il fidanzato, o Little Sister (2015) in cui a Kamakura vivono tre sorelle, Sachi, Yoshino e Chika che adottano la sorellastra di quattordici anni Suzu dopo la morte del padre, fuggito anni prima con la seconda moglie, o Father and Son (2013), dove Ryota Nonomiya, un uomo ossessionato dal successo, scopre che Keita, il bambino che ha cresciuto per sei anni, non è il figlio biologico, e che alla sua nascita è avvenuto uno scambio. Ryusei, il vero figlio, è invece cresciuto con la famiglia Saiki, più modesta ma molto unita. Insomma, uno scambio di figli utile a Kore’eda per raccontare quanto “famiglia” non significhi legame di sangue, ma affetto. E lo stesso tema, pur in maniera differente, viene analizzato anche in Un affare di famiglia (2018) o in Le buone stelle – Broker.
Se il nome del cineasta viene spesso associato – giustamente – a quello di Yasujirō Ozu, per l’abilità nel riconfigurare il fondante tema-famiglia nel Giappone contemporaneo, quest’ultime opere citate – ma non solo – sembrano essere molto vicine sia alla poetica di un altro grande maestro giapponese, Mikio Naruse (Ginza keshō, Floating Clouds), e al genere shomingeki, film che si soffermano sulla vita quotidiana di persone comuni e appartenenti alla classe operaia, sia all’intero cinema di Ken Loach. Le famiglie che racconta Hirokazu Kore’eda provengono infatti da contesti non facili, e di cui Un affare di famiglia, Palma d’Oro alla 71ª edizione del Festival di Cannes, fa da summa, dove Osamu, Nobuyo, Aki, la nonna Hatsue e il bambino Shōta, sopravvivono ai margini della società, tra lavori precari – operaio, impiegata in lavanderia, spogliarellista – e furti, condividendo una piccola abitazione a Tokyo. Poi Osamu trova in strada una bambina fuggita dai genitori violenti, Yuri, che diventa parte della famiglia. Questa idea di una famiglia improvvisata, a volte temporanea, affascina il cineasta, e fa da veicolo per un ampio studio sui concetti di speranza e memoria. E i bambini osservano, a volte impotenti, altre volte consapevoli, ma sempre, in un modo o nell’altro, protagonisti e al centro, come per Hayao Miyazaki.
Ora L’innocenza (il titolo originale 怪物 – Kaibutsu – Monster, più azzeccato e brillante di quello italiano) è un ulteriore approccio alla dimensione infantile e al rapporto con la genitorialità (forse in questo caso soprattutto con la paternità, sia visibile che non). E ancora si respira il gusto per la quotidianità e la scoperta di sé. Ancora c’è il tempo che scorre (come in Ozu) e che permette di acquisire consapevolezza, mentre le delicate note di Ryuichi Sakamoto (a cui il film è dedicato) si miscelano con i rumori della natura e della città.
L’innocenza è in sala dal 22 agosto.