Che funga da impressionistico itinerario sensoriale, surrealistica esplorazione del subconscio o lente d’ingrandimento su un momento saliente della vita e la sua portata emozionale, il cortometraggio è la tipologia filmica che, data la sua essenzialità di fondo, più spinge il suo autore ad una sperimentazione creativa, la quale spesso investe tanto il contenuto quanto la forma. Tristemente, però, si tratta anche della categoria di prodotti audiovisivi che più di rado la distribuzione tende a mettere a disposizione del grande pubblico, supponendo che ne sarebbe disinteressato. I festival, al contrario, facendone una selezione apposita e portando gli short film in sala, svolgono un impegno importantissimo affinché questi riacquistino la rilevanza che per decenni hanno avuto nella prima fase della storia del cinema. Anche la XIX edizione dell’Immaginaria Film Festival vanta una ricca offerta di cortometraggi, di generi e provenienze varie. Soffermiamoci ora a riflettere su tre esempi nello specifico.
Amour Océan: il desiderio che sommerge
È un pomeriggio d’estate e il calore emesso dall’asfalto sembra strabordare dallo schermo e invadere la sala. L’adolescente Jeanne (Mathilde Dupont-Corbran) e la sorella più piccola Camille (Louison Bejaoui) percorrono, cariche di spesa e a fatica, gli interminabili e rettilinei binari di una ferrovia. Un SUV decappottabile sbuca improvvisamente da alcuni alberi in lontananza e sfreccia lungo la strada che costeggia i binari, lasciando una scia di musica rock dalle atmosfere californiane. A bordo un gruppo di surfer, di cui uno (Eva Bouet) appoggiato alla parte superiore dell’intelaiatura del SUV: i riccioli d’oro gli coprono il volto e ipnotizzano Jeanne, che non riesce a togliergli gli occhi di dosso. Lo sguardo, che dura un attimo, quello che la velocità dell’automobile concede, è ricambiato.
Héléna Klotz, regista e sceneggiatrice di Amour Océan (trailer), è abile nel conferire percettibilità ai colori e alla luce, ai suoni e ai rumori, agli odori e ai gusti che connotano l’esperienza adolescenziale dei mesi estivi, o, per lo meno, i ricordi che molti di noi hanno di essa. Ombretti colorati, orecchini dai motivi inusuali, ciambelle ripiene di marmellata. I raggi del sole sono roventi e lo scroscio delle onde rilassa. Klotz dà al mare assoluta centralità e lo riprende ripetutamente e da distanze varie: la sezione in dettaglio della superficie più esterna della grande massa d’acqua, quella che tocca l’aria, come sfondo ai titoli di testa; il campo totale di Jeanne che lascia che le onde si infrangano su di lei; i campi lunghissimi dei surfisti con i capelli lunghi al vento, che corrono verso l’agitata distesa blu, disseminata di tanti puntini luccicanti prodotti dall’incontro con la luce solare. La fotografia di Victor Seguin riempie gli occhi di meraviglia.
L’atteggiamento descrittivo e della macchina da presa riesce di sicuro a rappresentare l’irresistibile attrazione e curiosità di Jeanne nei confronti del surfer. Lo vediamo per gran parte del film da lontano e con il volto nascosto. Anche per noi è l’oggetto del desiderio. Eppure, alla fine della visione allo spettatore manca qualcosa: forse, rinunciando a parte della sua componente contemplativa, Amour Océan si sarebbe reso più coinvolgente, offrendoci una finestra più ampia sul realizzarsi dell’avvicinamento tra Jeanne e il misterioso surfista.
L’Attente: quanto tempo serve per prepararsi ad amare?
Con tre settimane d’anticipo rispetto al previsto, le acque di Jeanne (Laetitia Dosch) si sono rotte e la moglie Céline (Clotilde Hesme), per accompagnarla in ospedale e starle accanto, ha lasciato una festa di soppiatto, senza generare allarmismo. Il travaglio sta andando per le lunghe. A un certo punto, Céline sfila le scarpe, chissà che cattivo odore sennò: sta applicando il consiglio di uno sconosciuto incrociato poco prima in corridoio, che, padre di cinque, a breve sei figli, dispone ormai di ogni strategia e kit di sopravvivenza all’interminabile attesa in sala parto. Mentre Jeanne si sforza di gestire il dolore, Céline ha tempo per pensare. Perché chiamare la figlia Polly, se tutti confonderanno il suo nome per Pauline? La prima canzone che ascolterà sarà Can’t take my eyes off of you, nella versione di Lauryn Hill, tanto francese o inglese non fa differenza quando si è in fasce. Nessuno si aspettava che Jeanne sarebbe rimasta incinta al primo tentativo; Céline si sta ancora preparando ad amare, non troppo, né troppo poco.
Vincitore del Premio César 2024 per il miglior cortometraggio, L’Attente (trailer) ci risulta da subito familiare. Un po’ per la situazione intima che rappresenta, un po’ per il tono ironico che frequentemente – e con ammirevole maestria – adotta per spezzare la tensione, un po’ per l’amore e il rispetto che è evidente legare le due protagoniste e per l’affetto che spontaneamente lo spettatore sviluppa nei loro confronti. Certamente buona parte della godibilità del film dipende sia dall’interpretazione contenuta ed elegante di Hesme che da quella più espressiva ed evidentemente emozionata di Dosch.
Il più grande merito della regista e sceneggiatrice Alice Douard è quello di aver raggiunto, con gli appena trenta minuti di durata del film, due obiettivi complementari. Da una parte, fa emergere, con assoluta naturalezza, la specificità dell’attesa di Céline, che è in una relazione omosessuale, ha deciso con sua moglie di ricorrere all’inseminazione artificiale e si trova nel reparto ostetrico di un ospedale, non in quanto donna partoriente, piuttosto come partner di una donna partoriente. Dall’altra, Douard fa convergere l’esperienza particolare di Céline in quella universale dell’attesa trepidante, a tratti carica di entusiasmo, a tratti spaventosa e incerta, della nascita del proprio figlio. Gli altri uomini che attraversano il reparto, seppur poco sensibilizzati rispetto alla particolarità della situazione di Céline, si rivolgono a lei con la stessa fratellanza e collaborazione che rivolgerebbero ad altri futuri padri. Quella de L’Attente è una visione oggi più urgente che mai, perché, pur trattandosi di un’opera di finzione, dimostra che la concessione di diritti a coloro a cui ancora vengono negati avrebbe, tra i suoi effetti, quello naturale di generazione di nuova vita e amore.
Night Ride: sogno e incubo, nostalgia e paura
Su un’automobile o in un supermercato, Dunja (Nika Barišić) e Sara (Dorotea Ilečić Sever) sono inseparabili. In un viaggio notturno fatto di pericolose curve, Sara è alla guida e accompagna Dunja a Zagabria; allo stesso tempo, è Dunja che porta Sara con sé, dalla loro piccola città natale sino alla nuova vita nella metropoli. Sempre di notte, Dunja vaga per un supermercato; si trascina appoggiandosi ad un carrello che spinge svogliatamente, si accosta ad un grosso contenitore di uova, ne afferra diverse e, una dopo l’altra, le getta con forza dentro il carrello, fino a quando una si rompe. Una commessa ai avvicina al carrello raccogliendo i resti dell’uovo e tranquillizzando Dunja. È Sara, che apprezza come l’amica sia diventata una donna in carriera. Ora è Dunja ad indossare il camice rosso; un cartone di latte le è sfuggito di mano e, nell’impatto con il pavimento, si è aperto. Così, attira l’attenzione di una cliente. Si tratta di una Sara elegantemente vestita, di passaggio nella piccola città. Dunja dovrebbe proprio pensare di trasferirsi a Zagabria.
Il croato Night Ride di Vida Skerk è un esercizio dall’ispirazione surrealista, in cui è evidente il tentativo di definire uno spazio onirico, che, però, risulta guidato da una logica di base. La si rintraccia nei continui e regolarmente alternati parallelismi, rispecchiamenti e ribaltamenti, nella perfettamente equilibrata dualità tra Dunja e Sara, adolescenza e prima età adulta, piccola città e metropoli. È ammirevole l’intenzione di Skerk di rappresentare un problema fondamentale di molti giovani adulti di provincia, ovvero la separazione dalla ristretta realtà in cui si è cresciuti e, successivamente, il confronto con la stessa dopo aver vissuto in una realtà nettamente più aperta e contaminata. Tuttavia, le soluzioni di messa in scena per lo più banali, che non si sposano bene con la premessa onirica del cortometraggio, e l’eccessiva linearità di questo, che pure è chiaramente influenzato dal surrealismo, non rendono Night Ride una visione convincente.