“Buscetta è un conservatore, per via della nostalgia della propria mafia che lo ha cresciuto e battezzato. Quindi è uno di quei traditori rivoluzionari che tradendo il proprio passato vogliono cambiare il mondo” afferma Bellocchio quando gli si chiede di quella figura spartiacque della leggenda mafiosa italiana, trasposta ne “Il Traditore” (qui il trailer).
Il taglio abitualmente riservato nei biopic di mafia a Tommaso Buscetta, quel “boss dei due mondi” italiano e allo stesso tempo profondamente latino-americano, sembra essere stato spesso marginale (e volontariamente forse). Bellocchio gioca la carta dell’affresco storico, per di più di una storia relativamente non lontana dal nostro immaginario spettatoriale. Il nucleo principale del racconto racchiude naturalmente gli eventi salienti, quindi il “tradimento” del traditore: l’arresto del personaggio, lo sterminio della sua famiglia, l’esportazione e le confessioni del 1984 che portano dritte alla concretizzazione del maxi-processo di Falcone e Borsellino.
Ed ecco affiorare in questi elementi scatenanti la più autentica delle dimensioni stilistiche del regista. Con una tecnica di mise-en-scène sorprendente (soprattutto nelle scene corali), Bellocchio fonde lo spettacolo d’azione con l’impegno civile più genuino perfettamente in linea al suo cinema politico degli anni Settanta, oltre che un più incalzante sottofondo di docufiction, riconfermando dopo le poetiche divagazioni di “Bella addormentata” (2012) e “Fai bei sogni” (2016) uno spirito da osservatore perfettamente abile nel creare trasfusioni audiovisive tra cronaca e cinema. Naturale completamento di questa valenza del film le magnetiche interpretazioni di Lo Cascio (nel ruolo di Totuccio Contorno), Ferracane (il viscido Pippo Calò), e di Maria Fernanda Cândido (la consorte di Buscetta). Favino, nel dominante ruolo del Traditore, è in uno stato di grazia e di prestanza sempre più sorprendente.
Battezzare così velocemente “Il Traditore” come il “JFK” italiano potrebbe sembrare azzardato se scrutato con l’occhio di chi si sarebbe aspettato dallo stesso un troppo gratuito messaggero politico. Molto meno se viene presa in considerazione la sua vera essenza filmica: un concentrato di cinema a più livelli attento a non scontentare tre tipi di pubblico ormai sempre più in crescita: quello di Netflix (accontentato nella sua dimensione spettacolare), della critica ufficiale (grazie alle scelte da film-inchiesta) e del pubblico televisivo (memorabile la citazione dalla miniserie “Il Capo dei Capi” [2007] con i criminali che esultano e brindano alla morte di Falcone).
Non è un caso che il cinema italiano si stia riscoprendo più che mai d’azione negli ultimi mesi, grazie a “Lo Spietato” di Renato De Maria o “Il Grande Spirito” di Sergio Rubini. A conti fatti “Il Traditore” si è rivelato lo Zenit di questa parentesi produttiva