Entrato nella selezione dei lungometraggi in concorso a Locarno 75, prodotto da Vivo film e Rai Cinema, uscito un po’ in sordina senza tanta pubblicità e in pieno agosto, Il Pataffio (trailer) ti porta in sala per i suoi connotati insoliti: produzione italiana, cast eccezionale, abiti antiquati, e un nome strambo. Tant’è che alla fine vai a vedere il film soprattutto per sapere che diavolo significa.
Quando si parla di film in costume medioevale, non si può non distinguerli in due generi complementari: il film epico, e il suo rovescio farsesco. È il caso questo del secondo, dove il Marconte Berlocchio (Lino Musella), fresco di matrimonio con la prosperosa Bernarda di Montecacchione (Viviana Cangiano), va a pigliar possesso del feudo di Tripalle (con annessa magione), lasciatogli in dote dal padre di lei. Giunti in loco con un modesto seguito (sgangheratissimo) di soldati, compreso un segretario (Giorgio Tirabassi) parecchio istruito e un frate gobbo (Alessandro Gassmann), untuoso e sozzo sia fuori che dentro, s’accorgono che la magione è una stamberga diroccata, e il feudo una pietraia dove cresce la gramigna e basta, <<terra>>, come sentenzia Migone (Valerio Mastrandrea), portavoce dei villici del posto, <<de micragna, dove se c’è uno che magna, ce n’è cento che se lagna>>. Il dramma è che questi poveri cristi, di pagare tributi e chinare il capo all’autorità del nuovo signore, non ne vogliono proprio sapere. Tra dispetti, minacce di morte e lazzi vari, il Marconte Berlocchio non ha alcuna intenzione di scendere a compromessi, perseverando donchisciottescamente con la sua politica inconcludente, mentre a corte ci si mangia le scarpe per la fame.
Francesco Lagi, regista e sceneggiatore abbastanza in ombra, ispirato dall’immaginario e dai personaggi cui Luigi Malerba diede vita nel romanzo omonimo del 1978, decide di fare del Pataffio un’opera per il grande schermo. Le ricostruzioni storiche, siano esse fedeli o fantasticamente ritoccate, sono sempre un azzardo, scatenano il fascino dell’esotico in casa e dunque non possono esimersi dal confronto con il presente. Un passo falso e rischi di scadere in quel tipo di grottesco sempliciotto che infila il moderno nell’antico o riduce il passato a luoghi comuni che vorrebbero essere spiritosi ma non lo sono per niente. Qualche scivolone di questo genere purtroppo il film non riesce ad evitarlo. I personaggi di Malerba si prestano bene alla caricatura, ma se l’intreccio del film non gli permette di maturare, o comunque di mostrare la complessità dell’umano, restano piatte caricature e nient’altro. L’autore li giudica senza sapere compenetrarli.
Perché tanta pigrizia nella regia? Il Pataffio annoia un po’, a tratti, l’azione ristagna, perde ritmo, annoierebbe per intero se a stuzzicare l’attenzione non ci fossero quei sapidi e recisi botta e risposta, in una lingua che non è una lingua e nemmeno un dialetto, ma un latino storpiato, o meglio, un romanesco latinizzato infarcito di arcaismi, che è forse l’unico salvagente comico di una narrazione troppo sbiadita per lasciare un’orma vivida nella memoria dello spettatore. Indubbiamente le cose sarebbero andate di gran lunga peggio se a parlare questo latino vernacolare fossero stati attori di più bassa lega. Musella, Tirabassi, Gassmann e Mastrandrea sono di una precisione micidiale: con sobrietà ti cavano la risata dalla pancia come un chirurgo l’appendice.
Dalla metà in poi la storia si tinge di un nero funebre, lo scioglimento sperato non giunge mai, quello che pareva il racconto di un buffone diventa man mano una storia sinistra dai contorni ambigui, tra la parabola politica e il monito esistenziale. Ve lo ricordate Vittorio Gassman/Brancaleone sul suo cavallo paglierino? Com’era bello nel suo patetico errare! Com’era nobile la sua serena ostinazione! Di quel film del ’66 se ne parlerà ancora per molto. De Il Pataffio, tra appena due anni svanirà la memoria come gli eventi ordinari che passano e non lasciano traccia.
Il Pataffio è al cinema dal 18 agosto.