Una bottiglia di vino rosso, di quello che veniva prodotto illegalmente in casa a ridosso della e come reazione alla Rivoluzione khomeinista del 1979, che nella nascente Repubblica Islamica d’Iran ha comportato, tra le altre cose, il divieto di consumo di alcolici. Una bottiglia di vino rosso conservata con sacrosanta cura, rimasta sigillata e tenuta nella dispensa di una cucina per trent’anni. Una bottiglia che attendeva di ricevere un ospite per il quale valesse davvero la pena essere stappata, lasciar fluire liberamente e vedere assaporato il proprio contenuto, impreziosito dal peculiare retrogusto conferitogli dalla storia e dalla resistenza, dal rifiuto di arrendersi all’oppressione del regime, anche se soltanto al di qua del perimetro recintato di un’umile abitazione.
Entrambi poco più che settantenni, Mahin (Lily Farhadpour) e Faramarz (Esmaeel Mehrabi) compiono la propria personale rivoluzione, quella che dovrebbe inaugurare la fase crepuscolare delle loro esistenze, muovendosi tra ed esplorando, in compagnia l’un dell’altra, gli interni e gli esterni della casa in cui Mahin abita da tutta una vita, sempre ed imprescindibilmente accompagnati da tanto vino rosso, forse troppo.
La determinata Mahin ha perso il marito in un tragico incidente quando era ancora molto giovane e, da allora, prima di Faramarz, non aveva lasciato entrare nella sua vita alcun altro uomo. Regolarmente racconta la sua quotidianità ai figli; lo fa per chiamata, avendo tutti loro lasciato l’Iran. Anche il timido tassista Faramarz, d’altra parte, è stato un tempo sposato, con una donna a cui non ha potuto dare figli e che, per tutta la durata del loro matrimonio, finito poi con un divorzio, gli ha imposto le regole di una religione a cui lui non ha mai creduto. Adesso che il vivere di tutti e due è diventato più silenzioso, sia per Mahin che per Faramarz è giunto il momento di riempire gli spazi rimasti per troppo tempo vuoti, di oltrepassare i confini della loro soffocante solitudine.
Il mio giardino persiano (trailer) è il secondo lungometraggio di finzione per cui i coniugi Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha hanno unito le rispettive risorse artistiche, collaborando sia alla sceneggiatura che alla regia. Presentato nel febbraio 2024 alla 74° edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, il film si è in quest’occasione aggiudicato il Premio della giuria ecumenica e il Premio FIPRESCI.
Quella raccontata da Moghaddam e Sanaeeha, con abbondanza di delicatezza e tatto, nonché una notevole dose di irresistibile ironia, è una storia dalle premesse piuttosto semplici, che senza troppa difficoltà inducono il pubblico a credere di essersi imbarcato in un viaggio spettatoriale dall’approdo prevedibile. Risiede proprio in questo l’eccezionale brillantezza de Il mio giardino persiano: nel manto di famigliarità con cui si presenta e del quale rimane vestito sino alla fine del secondo atto, quando bruscamente inverte senso di marcia e trafigge uno spettatore del tutto disarmato, che l’eventuale necessità di uno scudo difensivo non l’aveva proprio mai messa in conto. A ricondurci al mondo ordinario non è una lineare e progressiva via del ritorno, bensì uno schianto netto al suolo, del quale non si è avvertito neanche il preparatorio precipitare. Dalla proiezione in sala, su uno schermo che inghiotte e ci rende fatalmente vittime, se ne esce attoniti, smarriti. C’è bisogno di tempo per metabolizzare, così l’‘innocua’ storia e i teneri personaggi dell’opera dolcemente ingannevole della coppia di cineasti iraniani rimangono a pernottare nella nostra mente per giorni interi.
La scelta di inserire, a narrazione già ben inoltrata, un cambiamento di tono talmente radicale è stata da parte degli sceneggiatori senza dubbio coraggiosamente rischiosa. Il rischio che potrebbe manifestarsi è di “perdere” spettatori proprio sul finale; finale di una visione che per i suoi due terzi ci ha fatti rilassare sulla poltrona, magari anche con un leggero sorriso di compiacimento sul volto come segno di godibilità. Visione dalla quale, al momento del drastico mutamento di tono, ci si potrebbe sentire delusi e “presi in giro”, piuttosto che colti da un ammirato senso di sbigottimento. Ma Moghaddam e Sanaeeha questa variazione nella coloritura tonale del film, pensata e ponderata con cura, com’è evidente, sono riusciti ad eseguirla con intelligenza avendone fatto un uso ben specifico, finalizzato a comunicare, nel modo più impattante possibile, il messaggio della loro opera, anziché a provocare un superficiale, fine a sé stesso, effetto shock sugli spettatori.
D’altra parte, la gestione del ritmo della narrazione nel corso del film non è sempre ottimale, anzi. In diversi momenti della cena a casa di Mahin (secondo atto) si ha l’impressione che il racconto, seppur investa un arco temporale dichiaratamente breve, sosti troppo a lungo su una medesima situazione – per quanto comica – venutasi a creare tra i due protagonisti, oppure, su un medesimo scambio conversazionale tra gli stessi.
Nonostante l’aspetto appena evidenziato, Il mio giardino persiano rimane un esempio preziosissimo di quel cinema che riesce a tenere gli occhi dello spettatore incollati allo schermo semplicemente sapendo mettere in risalto la bellezza dell’ordinario. La stessa bellezza di continuo trasudata dai generosi interpreti protagonisti Farhadpour e Mehrabi, che di Mahin e Faramarz restituiscono tutto il travolgente pathos, l’amore per la vita, nonché le paure che alla loro età si affacciano sul quotidiano.
Dunque, non fatevi sfuggire l’occasione di vedere My Favourite Cake (questo il titolo internazionale, nonché traduzione letterale di quello originale) al cinema: sarà in grado, in soli 97 minuti, di farvi assaporare tutto lo splendore della vita, lasciandovi dare un assaggio anche del suo boccone più amaro.
In sala.