IL FASCINO (IN)DISCRETO DELLA COMMEDIA INDIE AMERICANA CONQUISTA LA FESTA DEL CINEMA DI ROMA

La Festa del cinema di Roma ci ha tenuti impegnati, quasi dieci ore al giorno, dal 16 al 24 Ottobre, dalle 9.00 del mattino fino ad un orario non meglio identificato, non stop, pausa esclusa. Insomma, una festa impegnativa nella quale ci siamo fatti volentieri trascinare, nei suoi controsensi, nei rituali sociali e professionali, nelle logiche bislacche attuate. Una festa senza il glam modaiolo che tradizionalmente attira le grandi ondate di pubblico, ma allo stesso tempo mantiene alta anche l’attenzione della stampa che altrimenti rischia il fatale “colpo di sonno” post- caffè delle 12,00 senza un red carpet e una star da inseguire, ammirare, criticare, senza qualcosa di cui sparlare o commentare.
Di film belli ne sono passati parecchi, molti dei quali provenienti dai migliori festival della scena internazionale (Toronto, Sundance, Londra), pellicole sospese tra tematiche sociali impegnate e dal forte carattere di denuncia (Freeheld, Carol), cronache di gesta epiche raccontate attraverso le nuove tecnologie mozzafiato o attraverso narrazioni patinate ed incalzanti (The Walk, Legend), variazioni cinesi dei grandi generi di tendenza al momento: musical e film d’animazione (Office 3D, Monster Hunt), retrospettive animate e trasposizioni letterarie (Pixar e Il piccolo principe firmato da Mark Osborne), passando per i francesi sospesi tra melodramma e passione e gli italiani che hanno evitato la tradizionale etichetta della commedia- tradizionale, di natura “italiota”- per aprirsi ai generi, dal melò (Alaska), alla comedique brillante di matrice teatrale (Dobbiamo Parlare) fino allo strabordante potere visionario del primo, vero, film di supereroi “all’amatriciana” (Lo Chiamavano Jeeg Robot) e mi fermo qui perché altrimenti dovrei elencare oltre cinquanta film provenienti da quasi una trentina di paesi (arrotondando numeri e percentuali). Eppure, credo che i veri vincitori morali di questa festa siano le commedie indie americane, commedie piccole, discrete, senza divi dal nome altisonante che richiamano le folle al botteghino, regie sfarzose o scritture opulenti: pellicole che sono piccoli gioielli e che vanno ad arricchire una tradizione puramente americana, impossibile da riprodurre- nello stesso modo, e seguendo lo stesso pattern– altrove, al di fuori dei confini di un’America che si nutre delle proprie contraddizioni per attingere nuovo materiale creativo e poter, così, crescere a livello cinematografico.

GrandmaMistress America e Grandma, il primo diretto da Noah Baumbach e il secondo da Paul Weitz, registi diversi per sensibilità, anni, estrazione sociale, obbiettivi che si pongono di raccontare, riescono però entrambi nella missione più difficile: mostrare le diversità, le difficoltà e le contraddizioni multi- generazionali che attraversano il continente americano attraverso un occhio- della macchina da presa- leggero e disincantato, poetico, consolante ma mai patetico, sempre pronto a mettersi in discussione e a svelare la realtà dei fatti senza edulcorarla.

Un altro elemento che accomuna le due pellicole- oltre al tono scelto dai due registi, leggero ed esilarante- è il punto di vista che entrambi scelgono di condividere: due uomini scrivono due storie sulle donne interpretate attraverso gli occhi delle donne che diventano, sulla scena e sul palcoscenico della vita, mattatrici assolute, pronte a decifrare l’ignoto rincorrersi degli eventi nella vita. Le esistenze che vengono orchestrate in scena sono caotiche, complesse e raggianti, portatrici sane di una incrollabile speranza di riuscire a trovare, prima o poi, per ognuno di noi il proprio posto nel mondo mentre siamo in cerca del tanto agognato “lieto fine”.

Mistress America, firmato a quattro mani da Baumbach e dalla compagna- protagonista Greta Gerwig è LA commedia generazionale definitiva. Ispirati dai film anni ’80 come Qualcosa di Travolgente o Cercasi Susan Disperatamente decidono di mettere in scena la storia di una diciottenne alle prese col suo debutto sul palcoscenico del mondo; sola, non solo deicide di affrontare il college, ma soprattutto il brusco passaggio nella grande città, quella Babele della mente che solo New York City incarna alla perfezione. Smarrita, senza amici, affetti e ad un passo dal tracollo emotivo, trova un’ancora di salvezza nella caotica sorellastra acquisita Brooke… l’incontro tra le due le spingerà a compiere un viaggio iniziatico all’interno di loro stesse, per cercare di capirsi e di trovare, definitivamente, le risposte alle confuse domande che si pongono di continuo, in cerca di una chiave di lettura per decifrare il caos della realtà.

Mistress America

Non è vero che a trent’anni bisogna avere, necessariamente, tutte le risposte pronte e le idee ben chiare: Mistress America immortala proprio il quadro di una generazione confusa, che cerca a tutti i costi di lottare- a modo proprio- per chiudere i conti con il proprio passato e guadagnarsi un posto sempre più definito nello scacchiere dell’esistenza.
Se il film di Baumbach immortala la generazione dai 20 ai 30 anni, quello di Paul Weitz sceglie di condividere il punto di vista di una scorbutica, scomoda, sboccata poetessa settantenne alle prese con le sue difficoltà relazionali e con l’impossibilità di ammettere, apertamente, il dolore provato dopo la perdita della compagna di una vita Violett. Ma l’arrivo della nipote adolescente Sage, che ha appena scoperto di essere incinta, e la sua decisione di trovare i soldi necessari per abortire spingono Elle- questo il suo nome- a rompere la “cortina di ferro” di misantropia che si è costruita nei confronti del mondo per aiutare la ragazza. Capace di affrontare tematiche socialmente indispensabili nel modo più lieve possibile, senza trascurare la serietà e l’impegno ma stemperandoli tra battute sagaci e siparietti irresistibili, la pellicola è capace di toccare trasversalmente innumerevoli punti fatti emergere con prepotenza da altre pellicole durante la festa, ma senza cadere mai nella retorica, anzi, mantenendo uno sguardo “alienante” tanto caro alle commedie indie della scuola americana. Nessuno personaggio portato in scena è una semplice macchietta: ogni donna rappresentata appartiene ad una differente generazione, “sente” le cose che accadono intorno a lei in modo diverso, reagisce personalmente al dolore e alle avversità della vita; ma, allo stesso tempo, è dotata di una sensibilità simile e comune che le spinge a sostenersi l’una con l’altra per affrontare quelle grane che, parafrasando Bukowski, definiscono la sostanza di cui è costituita la vita stessa. Come il personaggio di Mistress America, supereroina da fumetti dalla doppia vita creata da Brooke, la protagonista dell’omonimo film, tutti i ritratti di donne presentate nelle due pellicole sono delle eroine dei giorni nostri, talmente rivoluzionarie da poter sovvertire le regole dello star system, diventare le uniche voci di un film e incarnare l’essenza della scena indipendente americana, conquistando le platee di un’intera Festa del Cinema.

 

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