«Il cinema italiano degli anni trenta non esiste, non è rimasto», affermava un giovane Bernardo Bertolucci. Diceva questo probabilmente perché a quei tempi (nel 1970) non era stata messa in atto una seria rivalutazione della cinematografia del fascismo. E Il cinema dei telefoni bianchi (Bulzoni, pg. 672) di Ennio Bìspuri sembra quasi la risposta definitiva a questa specifica lacuna saggistica che per anni ha caratterizzato il panorama di studi sul nostro cinema (fatta eccezione per gli ottimi lavori di Francesco Savio).
Quello di Bìspuri, apprezzato biografo di Totò e Federico Fellini, è un volume monumentale, ponderoso e gremito di riflessioni sulla produzione italiana che va dal 1929 al 1943. Uno studio al quale l’autore ha dedicato ben cinque anni di lavoro. Un libro sorprendente (arricchito dalle prefazioni dei prof. Gian Piero Brunetta e Vito Zagarrio) che, inizialmente previsto nelle pubblicazioni delle Edizioni del Centro Sperimentale di Cinematografia, ha poi trovato in Bulzoni il suo ideale luogo editoriale.
Nello stilare una vera e propria filmografia dei “telefoni bianchi” l’autore è riuscito a compilare una lista di 207 film. «Ho voluto riabilitare tutte queste pellicole» afferma Bìspuri «per tanto tempo condannate perché girate durante il fascismo da intellettuali come Guido Aristarco e Cesare Zavattini, ma anche da registi come Carlo Lizzani. Quella loro posizione l’ho sempre ritenuta una grossa sciocchezza. Io sono antifascista, e nonostante tutto riconosco quello che il regime ha fatto per il cinema del nostro paese, dalla fondazione di Cinecittà alla Mostra di Venezia, il primo festival cinematografico internazionale del mondo». E il libro è anche un viaggio tra quelle figure che hanno partecipato eccezionalmente ai fasti di quegli anni, come Stefano Pittaluga e Luigi Freddi. Ma soprattutto un’occasione per rispolverare decine e decine di film sconosciuti o dimenticati.
«Un altro errore è quello di pensare che questi film venissero totalmente controllati dal regime», sottolinea ancora Bìspuri. «Dalle mie ricerche emerge invece il contrario; queste pellicole venivano criticate proprio dai gerarchi perché rappresentavano la borghesia in pantofole, marginale e non quei valori che il fascismo andava predicando». A ciò aggiungiamo che la rappresentazione dell’erotismo in quei film era molto più free rispetto al dopoguerra. Basti pensare che in alcune pellicole sono ben visibili forme femminili e i seni nudi di attrici come Clara Calamai e Doris Duranti.
Ma la scoperta più clamorosa è quella della Stella del cinema (1931) di Mario Almirante, dove Bìspuri ha scovato il primo, fugace, nudo integrale della storia del cinema italiano. Anche la posizione della donna in alcune di queste opere ci appare molto più evoluta e trasgressiva di quanto si possa immaginare, soprattutto se confrontata con la donna italiana dei film del dopoguerra.
Il cinema dei telefoni bianchi è un’analisi scientifico/letteraria dettagliatissima e meticolosa, non per questo necessariamente apologetica. «Non voglio dire che tutti questi film siano capolavori, anzi, ma ciò non vuol dire che in ognuno di essi non vi siano elementi sorprendenti che, presi singolarmente, li rende molto affascinanti e piacevoli da riscoprire», precisa l’autore. E con questa premessa, priva di facili accondiscendenze, speriamo che questo volumone possa incastrarsi nel polittico delle migliori opere saggistiche sul cinema italiano.