
BIANCA (1984; Nanni Moretti)

Uno degli approcci cinematografici più originali, profondi, e cinicamente divertenti è quello del regista Nanni Moretti nel suo Bianca, che è prima di tutto lo studio di un personaggio. Segue infatti le vicende di Michele (interpretato dallo stesso regista), un giovane insegnante che approccia l’amore per la prima volta. Dopo aver introdotto il protagonista con scene che ne dipingono in modo quasi grottesco la solitudine, prima su tutte quella in cui si ritrova ad essere l’unico single in spiaggia, provando in modo invadente ad approcciare una ragazza con risvolti disastrosi, il film introduce anche la sua nuova collega Bianca (Laura Morante), da cui prende il titolo. Michele si innamora subito di lei, e scopre abbastanza presto di essere ricambiato.
La relazione tra i due si trasformerà presto in un rapporto unilaterale, una volta che Michele comincerà a rimpiangere la sua solitudine, realizzando di non essere proprio fatto per la vita di coppia. Gli scenari assurdi, il cinismo del protagonista e il suo modo di guardare e commentare gli eventi del film in maniera distaccata rendono irresistibile la comicità del film, offrendo però soprattutto una riflessione unica sulle relazioni.
Di Alessandro Giardetti.
PUNCH – DRUNK LOVE (2002; Paul Thomas Anderson)

Punch – Drunk Love di Paul Thomas Anderson è il film di San Valentino per tutti i terrestri, per tutti i normali (e per questo un po’ meno normali rispetto agli amori idealizzati delle grandi storie) e i disadattati. Barry (un Adam Sandler a cui da questo film verrà riconosciuto un prestigio attoriale fino a quel momento negato) è un piccolo imprenditore dal carattere disfunzionale, incapace di relazionarsi convenzionalmente con le altre persone e costretto a tenersi dentro tutto, fino a scoppiare (letteralmente, in impeti di rabbia improvvisa).
È una persona un po’ strana, ma la cosa più dolce, romantica e profonda che il film riesce a dirci in mezzo a tutte le peripezie che affronta, è che non importa quanto il disagio ti deforma, ma come l’amore (quello che ti fa perdere la testa, che non pare vero, in cui ti riconosci) è in grado di accettarti e di farti accettare. E questo è un piccolo miracolo, così come Punch – Drunk Love è un grande film, uno di quelli che vederli solo a San Valentino è sacrilegio, con la regia di Anderson che è in grado di sorprendere davvero in continuazione talmente è feconda di idee geniali.
Di Gabriele Mutatempo.
GOD’S OWN COUNTRY (2017; Francis Lee)

Se cercate un film romantico diverso dai soliti, God’s Own Country di Francis Lee è una scelta perfetta. Ambientato nelle fredde e isolate campagne inglesi, racconta una storia d’amore intensa, lontana dai cliché del genere. Johnny (Josh O’Connor) è un giovane allevatore intrappolato in una vita fatta di sacrifici: mentre i suoi amici sono all’università, lui deve gestire la fattoria di famiglia e prendersi cura del padre malato. La solitudine e la repressione della sua sessualità lo hanno reso chiuso e ribelle. Ma l’arrivo di Gheorghe (Alec Secăreanu), immigrato rumeno in cerca di lavoro, cambierà tutto. Inizialmente diffidente, Johnny si lascerà travolgere da un sentimento profondo che lo costringerà a confrontarsi con se stesso.
Spesso paragonato a Brokeback Mountain, God’s Own Country si distingue per il suo realismo crudo e poetico. I due protagonisti, attraverso i loro silenzi, le divergenze e gli sguardi, intrecciano una storia intima che si riflette nei paesaggi dello Yorkshire che fanno da sfondo alla narrazione. Il film ci accompagna in un viaggio introspettivo, in cui è impossibile non lasciarsi coinvolgere. God’s Own Country celebra l’amore nella sua forma più autentica: quella che nasce dalle difficoltà, sfida le convenzioni e trasforma chi la vive.
Di Gabriele Stefani.
LA LA LAND (2016; Damien Chazelle)

Quale occasione migliore se non San Valentino, per vedere, o rivedere La La Land, un musical che incarna perfettamente l’essenza dell’amore? La storia ruota attorno a Mia (Emma Stone), un’aspirante attrice, e Sebastian (Ryan Gosling), un musicista jazz, entrambi sognatori in cerca di successo nella magica Los Angeles. La scintilla tra di loro è immediata, alimentata dalla condivisione delle loro ambizioni. Tuttavia, man mano che le loro carriere decollano, i due si trovano a dover affrontare scelte difficili e compromessi che mettono a dura prova il loro amore. Le scene musicali, ricche di colori e coreografie mozzafiato, riflettono la gioia e il dolore delle loro esperienze, creando un contrasto palpabile tra i momenti di felicità e le inevitabili separazioni.
Il film, diretto da Damien Chazelle, esplora il tema dell’amore in un contesto di aspirazioni e sacrifici, mostrando come le passioni possano sia unire che allontanare le persone. L’intreccio tra amore e ambizione culmina in un finale toccante che invita a riflettere su cosa si è disposti a sacrificare pur di inseguire i propri sogni. La pellicola è un tributo all’amore e alla perseveranza, che ci fa ricordare come, a volte, amare qualcuno significhi anche saper lasciare andare.
Di Chiara Cherubini.
DIRTY DANCING (1987; Emile Ardolino)

C’è un motivo se Dirty Dancing è diventata una delle storie d’amore più cult degli anni Ottanta. Non è solo per la colonna sonora diventata poi iconica, e nemmeno per l’improbabile match di un ballerino professionista, Johnny (Patrick Swayze), costretto a insegnare a ballare ad una determinata figlia di papà, Frances detta Baby (Jennifer Grey). Ciò che rende Dirty Dancing un classico senza tempo è la prospettiva fortemente femminile (il film è interamente scritto da Eleanor Bergstein e basato sulla sua vita), in cui la storia d’amore si mescola al racconto di formazione di una giovane donna e la scoperta dei propri desideri di emancipazione contro le regole asfissianti del buon costume. Prima di essere attratta da Johnny, Baby è attratta dai balli proibiti: liberi, sensuali e scardinati da ogni dogma.
L’autodeterminazione provocatoria dei corpi diventa uno strumento di ribellione e una messa in discussione di un mondo che la vuole docile in un angolo, ed ecco che allora l’amore per Johnny avviene allontanandosi dall’ipocrisia del perbenismo attraverso la scoperta di sé e del proprio desiderio di libertà. Solo così Baby potrà finalmente riuscire a sollevarsi da terra e vivere the time of her life.
Di Chiara Maremmani.
10 THINGS I HATE ABOUT YOU (1999; Gil Junger)

Chissà se Shakespeare sia a conoscenza della moderna storia d’amore tra Kat (Julia Stiles) e Patrick (Heath Ledger) ispirata a La bisbetica domata, commedia scritta dal poeta nel 1590. La narrazione segue un intreccio di vicende sentimentali, ponendo al centro dell’attenzione le sorelle Stratford: Kat, femminista dal carattere forte e Bianca (Larisa Oleynik), sorella minore dalla personalità dolce e socievole. Le ragazze sono legate da una precisa regola del padre: fino a quando Kat non avrà un fidanzato, neanche la sorella più piccola potrà averlo. Patrick, convinto da una ricompensa in denaro, dovrà flirtare con Kat per permettere ad alcuni ragazzi di poter uscire con Bianca. I due protagonisti, però, finiscono per legarsi davvero, mostrando la reale vulnerabilità che si nasconde dietro la corazza di entrambi. Calare le difese con una persona può essere rischioso, ma in alcuni casi, crea una profonda evoluzione del legame umano.
Di Sonia Spera.
SCOTT PILGRIM VS. THE WORLD (2010; Edgar Wright)

La vita di Scott Pilgrim è davvero niente male, ma quando incontra la misteriosa Ramona Flowers e se ne innamora a prima vista, si trova costretto ad affrontare in combattimento i suoi sette malvagi ex per poter conquistare la ragazza dei suoi sogni. Edgar Wright porta sul grande schermo il fumetto di Bryan Lee O’Malley con una forza straordinaria: incompreso alla sua uscita, con il tempo è diventato un vero e proprio cult, grazie a gag folgoranti e ad un’estetica unica che mescola cinema e fumetto con una creatività sorprendente. In un mondo folle, in cui i vegani hanno poteri psichici e i concerti vengono interrotti da combattimenti di arti marziali, Wright mette in scena una storia che mescola momenti di romanticismo ad altri del tutto surreali, pieni di riferimenti alla cultura pop.
Personaggi indimenticabili e una colonna sonora, come sempre, curatissima dal regista, completano il quadro di un film pieno di influenze, dalla cultura di massa occidentale e i videogiochi fino ai manga giapponesi, che riesce a raccontare una storia d’amore con una scrittura, un umorismo ed uno stile visivo irresistibili. Un film imperdibile, in grado di conquistare sia chi cerca una storia d’amore originale e memorabile sia gli amanti di videogiochi e musica.
Di Emanuele Canonici.
LOST IN TRANSLATION (2003; Sofia Coppola)

A Tokyo le auto sfrecciano ai piedi dei grattacieli come le biglie di un flipper. Nelle strade i neon sfavillano e si riflettono sui vetri dei taxi diretti verso qualche hotel. Qui dentro, nelle proprie stanze buie, due anime di epoche differenti attendono che il soffio della propria solitudine li spinga l’una verso l’altra. Charlotte (Scarlett Johansson) è una giovane neolaureata incerta del futuro, Bob (Bill Murray) è una star del cinema attempata senza più stimoli. La prima ha seguito il marito fotografo fino in Giappone per lavoro, il secondo ha seguito l’opportunità di soldi facili per girare uno spot di un whisky. A dividerli dagli altri però non è la lingua, quanto piuttosto l’incomunicabilità. A unirli è invece una sintonia esistenziale, un contatto spontaneo che genera una scintilla fragile e malinconica. Sofia Coppola racconta di un sentimento destinato a vanificarsi inesorabilmente nel groviglio delle loro esistenze, il cui significato, puro e irripetibile, si perde come in una traduzione imperfetta da una lingua a un’altra.
Di Nickolas Stefani.
THE APARTMENT (1960; Billy Wilder)

L’amore è una questione concreta, pratica, diretta. Uno scambio rigido di favori che nella New York degli anni Sessanta di The Apartment ha perso quell’atmosfera rosea che siamo abituati a sentire nelle grandi commedie romantiche hollywoodiane. C.C. Baxter (Jack Lemmon), è uno degli irresistibili schmuck che popolano il cinema di Billy Wilder. Impiegato comune in uno dei tanti imponenti grattacieli della City, ha ceduto tutto di fronte alla legge del più forte: il suo appartamento, il suo tempo e persino la sua dignità, nella speranza di accedere alle alte cariche dell’azienda.
Eppure, a dispetto di ogni logica capitalistica, che sembra dominare ormai anche le relazioni, l’amore si insinua nella sua vita, attraverso le battute schiette di Fran Kubelik (Shirley MacLaine), ascensorista del palazzo e, a sua volta, esperta in illusioni infrante. Sembra impossibile che qualcosa di così delicato ed autentico sbocci da una realtà fredda e arida, ma nel sottilissimo gioco di corrispondenze che la sceneggiatura di Wilder costruisce ogni cosa ha un suo scopo preciso, anche quando non ce ne accorgiamo. Perché a volte l’amore non è nella solennità dei grandi gesti e la felicità non si vede da dietro scrivanie di mogano: piuttosto, la chiave è in un fiore all’occhiello, in uno specchio rotto, in un mazzo di carte.
Di Cristina Esposto.
MOMMY (2014; Xavier Dolan)

Quella di Mommy non è una storia d’amore cinematograficamente convenzionale, ma un inno all’amore nella sua forma più assoluta e sincera: quello che tra madre e figlio. Canada, ipotetico futuro prossimo: entra in vigore la controversa legge S-14, che consente ai genitori di minori con problemi di ricoverarli in strutture psichiatriche senza alcuna procedura legale. In questo scenario si delineano le sorti di Diane (Anne Dorval), giovane vedova dal carattere focoso, ancora dotata di un discreto fascino, e di suo figlio, l’apparentemente angelico Steve (Antoine Olivier Pillon), affidato alla madre dopo un difficile e triste interrail tra centri di recupero. Il ragazzo, infatti soffre di un disturbo psichiatrico che lo rende spesso violento. A questo duo già esplosivo si unisce Kyla (Suzanne Clément), la vicina di casa, un’insegnante in congedo a causa di una balbuzie provocata da un trauma non specificato.
Il ménage a trois che si viene a creare è quasi claustrofobico, una sensazione amplificata dalla scelta di Xavier Dolan di girare, in rapporto 1:1, confermandosi un regista refrattario alla banalità per antonomasia. L’allora enfant prodige, confeziona un dramma di straordinaria potenza, tanto sul piano narrativo quanto su quello stilistico: l’angoscia che pervade il film, seppur alleggerita in alcuni momenti, è destinata ad esplodere in un finale, o meglio in più finali, che lasciano nello spettatore un amaro difficile da mandar giù.
Di Nicolò Pierro.